Iniziamo dalla fine, anzi dal fuoricampo del film di Jasmila Zbanic, bosniaca, nata a Sarajevo, ventenne sotto alle bombe, che con la sua macchina da presa prova a rispondere alla necessità di ricostruire la storia del suo Paese a partire da un punto di vista: il proprio e quello di un vissuto che coincide con tanti altri e che è possibile memoria collettiva. Il fuoricampo di cui sopra ci porta nel 2011, quasi vent’anni dopo la guerra nella ex-Jugoslavia, quando viene arrestato Mladic, il colonnello dell’esercito serbo responsabile del genocidio di Srebrenica, nel luglio del 1995, la città bosniaca i cui abitanti vennero ammazzati a migliaia, di ogni età e sesso e gettati nelle fosse comuni, i resti sono stati parzialmente trovati solo tempo dopo, e ricostruiti grazie a quei ricercatori che negli anni hanno imparato a restituire una identità ai corpi scomparsi – l’esperienza dell’Argentina e dei suoi desaparecidos ha insegnato. Eppure Mladic era sempre sempre rimasto lì, almeno così pare, e con taglia sulla testa milionaria, viene da chiedersi come mai non siano mai riusciti a arrestarlo o non abbiano imposto il suo arresto. Anche questa è una storia che si ripete: è accaduta dopo la seconda guerra mondiale quando molti nazisti responsabilii degli stermini scomparvero, come, grazie a chi, con quali coperture? – certo mai tornarono indietro sulle loro azioni, come ci dice con didascalico terrore il film, fuori concorso di Luke Holland, Final Account.

A CHIEDERE giustizia per i suoi crimini di guerra era stato il tribunale istituito all’Aja, in Olanda, quasi un paradosso visto che furono proprio i soldati olandesi dell’Onu a consegnare i cittadini di Srebenica ai serbi. Zbanic si ferma però un po’ prima suggerendo nel suo racconto un «dopo»più intimo, legato alla sua protagonista, l’Aida del titolo, che è quello del dolore delle vittime, del lutto, di una ricostruzione della quotidianità sospesa nella mancanza di un confronto comune.

IL MASSACRATORE è il vicino di casa, come prima, e si fa finta di nulla: si può pensare a un futuro così?
Quo Vadis, Aida? il nuovo film della regista di Grbavica- I segreto di Esma (con cui vinse l’Orso d’oro), presentato ieri in concorso, si ispira alla vicenda di Hasan Nuhanovic, un traduttore per l’Onu, la sua famiglia venne sterminata a Srebrenica dall’esercito serbo a cui la consegnarono gli olandesi Onu di stanza nella regione. L’Aida del film (la molto brava attrice Jasna Duncic, già insieme alla regista nel precedente For Those who Can Tell No Tales) era insegnante, la guerra l’ha trasformata in interprete per i caschi blu. Traduce le trattative, i loro silenzi, le loro promesse di aiuto che si rivelano delle bugie. Sappiamo come è andata e quante responsabilità l’Europa intera ha avuto in quel conflitto, nell’indifferenza, negli occhi distolti, nelle complicità, nei traffici delle economie, negli accordi di comodo.

Quo vadis, Aida? comincia che Srebenica è già assediata, poche ore prima dell’arrivo di Mladic, qualcuno fugge nei boschi, molti si riversano verso il fortino dell’Onu convinti di essere protetti lì dentro, Srebrenica era stata dichiarata «safe zone» come potrebbero non aiutarli? Ci crede anche Aida, pensa che sia la cosa migliore per la sua famiglia, il marito, i due figli. È lei lo sguardo e «l’io narrante», il suo volto che cambia col passare delle ore perché nel lavoro di «traduzione» comprende quanto sta accadendo, che sono stati abbandonati, che gli olandesi si sono accordati con Mladic tradendo ogni promessa mai fatta. Il suo è il dolore di una città, di un Paese, di una donna che perde in un attimo gli amori, le speranze, sé stessa – «Sentivo il bisogno di avere una prospettiva diversa per raccontare come hanno vissuto questi momenti le persone che ne hanno fatto parte e per questo ho scelto di far vedere la guerra dagli occhi di una donna» ha detto la regista nell’incontro stampa.
I sentimenti nel cuore e negli occhi di Aida si specchiano in quelli della regista: la donna sa tutto e non sa niente, c’è rabbia e c’è disperazione e insieme volontà di un «dopo». È una lotta – la città oggi è ancora serbo-bosniaca – contro la rimozione e per la storia la sua proprio come quella del film. Faticosa, forse non impossibile.