Scene da una dittatura: un carro armato che sfonda il cancello dell’Università San Marcos a Lima; circa 400 agenti della polizia anti-sommossa, appoggiati da forze speciali e blindati, che entrano nel campus sparando e lanciando gas lacrimogeni pur senza incontrare resistenza.

QUASI 200 I MANIFESTANTI arrestati arbitrariamente e condotti senza spiegazioni alle sedi della Dirección contra el Terrorismo e della Dirección de Investigación Criminal; uomini e donne fatti sdraiare a terra a faccia in giù e con le mani legate dietro la schiena, colpiti e umiliati.

È la barbarie, quella di cui sta dando ripetutamente prova il governo di Dina Boluarte, contro la civiltà, quella rappresentata dall’Universidad Nacional Mayor de San Marcos, la più prestigiosa del paese e la più antica d’America (la sua fondazione è datata al 1548), dove, da mercoledì scorso, avevano trovato accoglienza oltre 600 manifestanti giunti nella capitale da Cusco, Puno, Arequipa, Abancay e Vraem (la Valle dei fiumi Apurimac, Ene e Mantaro) per partecipare alla «toma de Lima» o Marcha de los cuatro suyos.
Era successo già il 21 maggio del 1991, proprio sotto una dittatura, quella di Fujimori, il quale aveva ordinato all’esercito di entrare nelle università di San Marcos e La Cantuta per cancellare ogni traccia di sovversione.

E SI È RIPETUTO, con il pretesto dello stato d’emergenza, sabato scorso, sotto un governo che si sostiene sulle forze armate e sulla destra fujimorista, ormai considerato dalle forze che lo combattono come una dittatura civico-militare-imprenditoriale.
Dopo 30 ore, accese polemiche e una violenta repressione dei manifestanti che chiedevano il loro rilascio, 192 delle 193 persone arrestate durante l’operazione sono state liberate (ne è stata trattenuta una su cui grava una precedente denuncia), ma le immagini dell’illegale irruzione, senza ordine giudiziario e senza la presenza della Defensoría del Pueblo o della Procura, hanno ulteriormente aggravato la crisi politica in atto.

Né è bastata la spiegazione da parte del Ministero dell’Interno che la polizia era intervenuta a seguito di una denuncia delle autorità universitarie – riguardo a un’aggressione al personale di sicurezza e a un furto di attrezzatura da parte di un gruppo di manifestanti – per giustificare, per esempio, il divieto ad avvocati, difensori dei diritti umani e parlamentari di sinistra ad accedere alla città universitaria per vigilare sull’integrità dei detenuti.

DI «GRAVISSIMA VIOLAZIONE dei diritti» ha parlato non a caso l’avvocato costituzionalista Omar Cairo, evidenziando come, «di fronte alla repressione brutale e all’incapacità di governare della presidente», l’unica soluzione sia la sua rinuncia. Mentre la Coordinadora Nacional de Derechos Humanos ha presentato una denuncia contro il ministro dell’Interno Vicente Romero e il comandante generale della polizia Raúl Alfaro Alvarado.

È intervenuta anche la Commissione interamericana dei diritti umani, esprimendo la sua preoccupazione per quanto avvenuto ed esortando «con urgenza lo stato a rendere conto dei fatti». Anche se non è certo solo di questo che deve rendere conto la presidente, responsabile di un numero di morti (più di 60) e di feriti (più di 1.200) di gran lunga superiore a quello dei suoi giorni al governo (45).

MORTI E VIOLENZE – girano sulle reti sociali video con immagini impressionanti della repressione – non fermano tuttavia le proteste, ancora in corso in almeno 12 delle 24 regioni del Perù, con particolare intensità a Puno, Cusco, Arequipa e, ovviamente, nella capitale, dove sono in arrivo altri gruppi di manifestanti. «Se non lottiamo ci massacrano ugualmente», spiegano.

E mentre i blocchi stradali in tutto il paese sono ancora un centinaio, una nuova marcia nazionale, nel quinto giorno della «presa di Lima», è stata convocata per oggi dalla Confederación General de Trabajadores del Perú.