I difensori dell’acqua, delle foreste, dei diritti dei popoli indigeni muoiono al ritmo di uno ogni due giorni. Secondo l’ultimo rapporto di Global Witness, che ogni anno a partire dal 2012 monitora lo scenario dell’attivismo ambientalista, sono 177 quelli assassinati nel 2022 (per un totale di 1.910 negli ultimi dieci anni), in calo – unica buona notizia – rispetto ai 200 del 2021 e ai 227 del 2020.

Ma si tratta probabilmente di una stima al ribasso, perché, come riconosce l’ong inglese, «potrebbero mancare i nomi di molti attivisti uccisi l’anno scorso e forse non sapremo mai quanti altri hanno dato la vita per proteggere il nostro pianeta».

Una cifra, oltretutto, che non tiene conto dell’ampia gamma di violenze a cui sono esposti i custodi della terra, tra intimidazioni, minacce, stupri, espulsioni e persecuzioni.

Ancora una volta, il continente più pericoloso per gli ambientalisti è l’America latina, in cui si concentrano 9 omicidi su 10 – in larghissima parte impuniti -, di cui un terzo è avvenuto in Colombia, con 60 vittime (in massima parte indigeni, afrodiscendenti e piccoli agricoltori): una cifra quasi raddoppiata rispetto al 2021.

Tra loro anche una guardia indigena di appena 14 anni, Breiner David Cucuñame, caduto il 14 gennaio nel Cauca, insieme al dirigente Guillermo Chicana, durante un attacco a un gruppo di guardie indigene Nasa da parte di gruppi dissidenti delle Farc.

Né l’ambizioso progetto della “pace totale” portato avanti da Gustavo Petro (il cui mandato è iniziato nell’agosto del 2022) né la ratifica (nell’ottobre successivo), dell’Accordo di Escazú – il primo trattato giuridicamente vincolante in materia ambientale dell’America latina e l’unico al mondo a contenere disposizioni specifiche per la protezione dei difensori dell’ambiente – hanno finora prodotto i risultati sperati.

Tant’è che ora la Colombia ha superato il Brasile per numero di attivisti assassinati nell’ultimo decennio: 382 casi contro 376.

E proprio il Brasile appare al secondo posto in classifica nel 2022, con 34 vittime, otto in più rispetto al 2021. Un dato che non stupisce, essendo ancora riconducibile all’amministrazione Bolsonaro.

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Alle spalle del Brasile si incontra, con 31 omicidi, il Messico – meglio che nel 2021, quando guidava la classifica con 54 ecologisti assassinati – e con 14 l’Honduras, sei in più che nell’anno precedente. E solo al quinto posto si trova il primo paese fuori dal continente: le Filippine, con 11 vittime.

Tra tutti gli attivisti ambientali sono gli indigeni a pagare un prezzo più alto, con il 36% delle uccisioni, benché le comunità indigene costituiscano solo il 5% della popolazione mondiale. E una morte su cinque è legata alla difesa dell’Amazzonia, dove, dal 2014, sono stati uccisi almeno 296 attivisti ambientali, di cui 39 lo scorso anno. T

ra le vittime si incontrano anche il giornalista britannico del Guardian Dom Phillips e il grande indigenista Bruno Pereira, assassinati il 5 giugno dello scorso anno nella Terra indigena della Vale do Javari, nello stato di Amazonas. Un duplice omicidio per cui sono sotto processo tre pescatori ma di cui, come in innumerevoli altri casi, non si conoscono i mandanti.

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Le cause degli omicidi sono le solite: l’agribusiness, l’attività mineraria, il traffico di legname, le centrali idroelettriche, la costruzione di strade e di altre infrastrutture. Il tutto in un quadro in cui la sempre più grave crisi climatica e la crescente domanda di prodotti agricoli, combustibili fossili e minerali «intensificheranno la pressione esercitata sull’ambiente e su coloro che rischiano la vita per difenderlo».