Da quando si è sposata, cinque anni prima, Gamhee non ha quasi più visto nessuno, è sempre insieme al marito, lui sostiene che quando due si amano non devono lasciarsi mai. Ora però è accaduto: l’uomo, traduttore e professore d’inglese è in viaggio per lavoro, così la giovane donna torna un po’ al suo passato, ritrova le amiche, una ha divorziato da poco, un’altra vive da sola, un’altra ancora ha una storia con un uomo separato – e un giovane amante di una notte che le bussa alla porta, ha messo un po’ di soldi da parte e vuole divertirsi – «Ma forse sono troppo vecchia per continuare così» dice a Gamhee, mentre le parla di un bar del quartiere dove tutti si ritrovano.

POI C’È Woojin, che le appare inattesa, avevano rotto senza più parlarsi per ragioni di cuore, lei si è sposata con il suo fidanzato, uno scrittore divenuto famoso, che ora sopporta a fatica e avrebbe da sempre voluto scusarsi. Gamhee vedrà anche lui nel giardino del caffé per un attimo, con l’imbarazzo distante di quando si incontrano i vecchi amori finiti un po’ male. . Per The Woman Who Ran – in concorso – Hong Sang-soo ritrova i «suoi» attori, a cominciare da Kim Minhee – è lei la protagonista – qui meno ragazza nouvelle vague di altre volte, e anche noi spettatori vedendo il film abbiamo l’impressione di essere fra vecchi amici che si incontrano dopo qualche tempo, coi quali, a volte, nonostante le separazioni della vita si può scoprire – vale poi ovviamente il contrario – di essere ancora vicini.

MA QUESTA è la grandezza del regista coreano che intorno a una poetica riconoscibile, a una «manciata di storie» riesce a inventare ogni volta una variazione, a trovare la freschezza di un nuovo inizio, l’epifania di un momento unico di cinema. È la caratteristica dei suoi componimenti quasi musicali il cui respiro è scandito dalle emozioni, mai gridate, segrete dei personaggi che li abitano, narrazioni possibili di noi, del nostro essere al mondo, dei nostri vissuti.

ECCOCI dunque nel microcosmo di esistenze comuni, il caffé teatro dei suoi film è stavolta evocato dalle parole, gli incontri avvengono in casa forse perché la grana è quella, seppure non esplicitata, di una malinconia per un passato vicino e insieme irremediabilmente perduto. «Sei innamorata di tuo marito?» chiede una della amiche a Gamhee, che alla domanda non sa rispondere con certezza. Un po’ ogni giorno, dice. E non sa neppure se è felice, il suo piccolo negozio di fiori è sempre vuoto, forse sarebbe meglio uno di abbigliamento… Ma le altre, quelle che ascolta parlare di galli violenti del vicino e dei gattini – stupendi – che sono come figli, lo sono felici? Quale è la distanza tra il racconto di noi e i sentimenti più profondi? Nelle conversazioni tra donne la linea fluttua, la confidenza a volte si fa pudore. «Le donne nei loro discorsi sono amichevoli ma anche molto misteriose» dice il regista che in questo mistero entra con pudore, quasi a distanza, lasciando gli uomini fuori campo – a parte i pochi minuti in cui appaiono lo spasimante ragazzetto e lo scrittore – ma ben presenti nelle loro parole.

DA CUI TRASPARE un rapporto sociale socialmente codificato, che mette ancora le donne ai margini, nell’obbligo di accettare il volere maschile specie dentro alla famiglia. Gamhee si è appena tagliata i capelli, è un segnale di insofferenza per quella relazione soffocante? Nello spazio tra la sé stessa che era e quella di oggi ascolta più che parlare, è l’origine del movimento altrui, delle confidenze, di quelle storie che piano piano riempiono l’aria come in un romanzo, come in un film.
Lei le raccoglie lasciandone l’esito in sospeso, vale anche per sé stessa; il suo rifugio è la piccola sala cinematografica vuota, sul cui schermo scorre l’immagine del mare. Un gioco di specchi – come non pensare a On the Beach at Night Alone (2017) visto proprio alla Berlinale – a dirci il flusso di questo cinema, la trama di una poetica, e del suo autore, che nei raccordi e nelle sinergie non smette mai di improvvisare. Con invenzione.