Camilo Restrepo si era fatto notare a Locarno nel 2016, dove il suo corto Cilaos aveva ricevuto il pardino d’argento. L’anno successivo, La Bouche faceva parte della selezione della Quinzaine des réalisateurs. A Berlino arriva con un film di 70 minuti, che, senza rinnegare nulla della forma e dello stile «video art» dei corti precedenti, cerca di adattarla alla durata di un (piccolo) lungometraggio. La storia di Los Conductos si ispira alla vita di una persona che Restrepo ha incontrato nel 2013, sul set di un film. Si tratta di un ragazzo di nome Pinky che per otto anni ha fatto parte di una setta mistica radicale, da cui è uscito per trovare lavoro in una fabbrica di magliette tarocche. Il film segue il flusso di coscienza di questo personaggio e osserva come il passato continui ad ossessionarlo, spingendolo a concepire il desiderio di uccidere il guru (che nel film viene chiamato «il padre»). Nella realtà, Pinky ha solo accarezzato l’idea di vendicarsi, senza decidersi a passare all’atto. Restrepo ha dichiarato in un’intervista che di Pinky lo stupiva la grande dolcezza di carattere unita a dei pensieri violenti, e alla convizione che solo la violenza avrebbe potuto mettere fine alle sue ossessioni. Il film offre duque a Pinky la possibilità di sublimare il delitto nella finzione, di uccidere il guru sullo schermo, senza doverlo fare nella vita vera.

IL FILM funziona isolando delle scatole narrative autonome, alcune di puro documentario (la fabbrica dove Pinky lavora, dei giri in moto per le vie di Bogota o la preparazione di una pipa), altre di assoluta finzione, se non di allucinazione. Il film salta dall’una all’altra senza transizione, attraverso il suo personaggio principale, Pinky, che vive o interpreta il proprio ruolo. È questo «passaggio» in fondo il senso del titolo, che vuol dire «condotti», sorta di versione fognaria del più nobile concetto benjaminiano. In queste scatole, non c’è solo la differenza tra il documentario e la finzione, ma anche altre forme che danno luogo a delle scene ora comiche, ora drammatiche, ora puramente visive o sonore. Restrepo filma tutta questa rete di spazi in maniera molto frontale, come se stesse inquadrando un’immensa casa delle bambole, utilizzando una tecnica che ricorda ora Jerry Lewis ora Wes Anderson, e nei dettagli soprattutto quest’ultimo, al quale Restrepo impresta il gusto per l’ordine, per i divisori, per gli oggetti, in una versione tropicale e sottoproletaria, con per esempio delle scaffalature per le sigarette e il telefono ricavate facendo dei buchi nei mattoni.

TUTTO QUESTO caleidoscopio di idee e forme è il segno di un partito preso fieramente anti-realista, il quale esige dallo spettatore uno sforzo per colmare i buchi o meglio per creare lui stesso i propri «condotti». Dal flusso di coscienza di Punky emerge nondimeno un contesto sociale e umano chiaro e che, pur non essendo imposto allo spettatore da un trattamento realista, appare in ultima analisi come una realtà di fondo, allucinante e inquietante, della Colombia contemporanea.