Agli inizi di marzo sono circolate, seppur in sordina, notizie inquietanti sullo stato di conservazione della Tomba di Nefertari, situata nell’area occidentale della necropoli di Tebe denominata Valle delle Regine, nei pressi di Luxor. La sepoltura della «grande sposa reale» di Ramesse II, risalente al 1250 a.C. circa, fu scoperta nel 1904 da Ernesto Schiaparelli, direttore del Museo Egizio di Torino dal 1884 al 1928. È infatti l’istituzione piemontese, che quest’anno celebra il bicentenario della fondazione, a custodire gli oggetti del corredo funerario sfuggiti agli antichi predoni. Della collezione fa parte anche un prezioso modellino della tomba in legno dipinto, realizzato sotto la guida dello stesso Schiaparelli.

L’ultima dimora della sovrana era decorata con raffinate pitture murali, che illustrano il suo viaggio rituale nell’aldilà. A incantare migliaia di visitatori non è solo la ricchezza di dettagli ma anche lo splendore dei colori (ocra gialla, verde, rosso, blu egizio), che però subiscono un progressivo degrado. Già negli anni ’50 del secolo scorso l’Istituto centrale per il restauro di Roma effettuò un intervento sui dipinti. Interpellata dal manifesto, l’egittologa Monica Hanna – preside nonché docente dell’Accademia araba delle scienze, della tecnologia e del trasporto marittimo di Assuan – ci informa che, in seguito all’allarme lanciato da alcuni specialisti, la Tomba di Nefertari è stata prontamente chiusa al pubblico, fino a data da destinarsi. «Questa decisione – dichiara la studiosa, nota proprio per il suo impegno nel campo della salvaguardia del patrimonio – era ormai inevitabile, perché non possiamo continuare a sfruttare egoisticamente uno dei monumenti più rappresentativi della civiltà egizia. L’impatto del turismo, infatti, rischia di precluderne la fruizione alle generazioni future. Sarebbe dunque auspicabile – continua Hanna – eseguire una copia della sepoltura con il supporto delle stampanti 3d, in modo da preservare l’originale fino a quando potremmo disporre di tecnologie più avanzate per la sua tutela».

Un’altra regina attira gli sguardi del mondo intero: Nefertiti, consorte di Akhenaton, celebre soprattutto per l’enigmatico busto scoperto nel 1912 dall’archeologo tedesco Borchardt in un atelier scultoreo di Tell el-Amarna. Il reperto, datato al 1340 a.C. circa, fu donato nel 1920 dal mecenate Simon ai musei di Berlino ma l’Egitto ne reclama il ritorno dal 1924. Su quali argomenti si basa la richiesta di restituzione che lei ha rinnovato?
Al contrario di ciò che asseriscono le autorità tedesche, il busto è uscito illegalmente dal territorio egiziano. I contratti di scavo dell’epoca provano che, a partire dal 1912, alle missioni archeologiche straniere era proibito esportare i capolavori rinvenuti. Con la sua condotta Borchardt trasgredì le norme che, in qualità di membro del Comitato di Egittologia, avrebbe a maggior ragione dovuto rispettare. Inoltre, un documento conservato negli Archivi del Cairo testimonia che il governo prussiano aveva intenzione di riconsegnare la scultura ma Hitler rifiutò. Nefertiti, era per lui una vera e propria ossessione e aveva immaginato attorno al volto della regina la Galleria d’arte di Linz, che – com’è risaputo – non fu mai costruita. Si tratta di una vicenda controversa, iniziata con il sospetto che il manufatto fosse un falso a causa dei sotterfugi di Borchardt, che – per impadronirsene – aveva sminuito l’opera, descrivendola come «un busto di gesso incompiuto».

Nel 1989 l’ex presidente Mubarak definì Nefertiti la migliore ambasciatrice dell’Egitto a Berlino. Dall’altro lato, i curatori del Neues museum sostengono che lo straordinario valore del busto dipende proprio dalla sua esposizione nella capitale tedesca.
Entrambe le affermazioni sono inaccettabili. Il busto è frutto del genio artistico degli Egizi e ha avuto un’influenza enorme nell’immaginario del nostro popolo, dal cinema ai fumetti fino alla street-art. Non credo che lo stesso fenomeno possa riscontrarsi in Germania, dove invece il merchandising legato alla figura di Nefertiti assicura cospicui guadagni. Durante la rivoluzione del 2011 bandiere con l’immagine dell’antica regina sventolavano in Piazza Tahrir. La continuità culturale è evidente, dal momento che Nefertiti è anche assurta a simbolo del movimento di liberazione femminile.

Nefertiti è allo stesso tempo un’icona-pop e un emblema dell’imperialismo. A giudicare dalle politiche dei musei che si ostinano a comprare capolavori dell’antichità sul mercato clandestino, l’atteggiamento colonialista non si è affatto estinto.
Purtroppo è così. Basti citare il caso del sarcofago dorato del sacerdote Nedjemankh, trafugato durante le rivolte del 2011, acquisito dal Metropolitan Museum of Art di New York e reso all’Egitto solo nel 2019. Altri reperti egizi sono stati intercettati di recente in Libia, dove venivano usati come merce di scambio per traffici internazionali. Credo che dobbiamo smettere di considerare i cosiddetti musei universali come centri di conoscenza, giudicandoli piuttosto come luoghi della vergogna. Il rapporto Sarr-Savoy del 2018 sulla restituzione del patrimonio africano attesta infatti che il 70 per cento del patrimonio di questo continente si trova all’estero. Con un gruppo di ricerca che può contare su fondi dell’Università di Oxford, del Sud Africa e del Ghana stiamo lavorando per un movimento di decolonizzazione dei musei sempre più esteso.

A questo proposito, nel 2022 – anniversario della decifrazione dei geroglifici – ha promosso una petizione per il ritorno della Stele di Rosetta, uno degli oggetti «faro» del British museum.
La scoperta, nel 1799, della lastra in granodiorite di età tolemaica si deve all’ufficiale dell’armata napoleonica Bouchard. Sottratta alla Francia dopo la vittoria degli inglesi nella Battaglia di Alessandria, è a Londra dal 1802. Poiché, assieme ad altri 17 reperti (tra cui una colonna e un sarcofago) rappresenta un trofeo di guerra, la «pietra nera» andrebbe riportata in Egitto. Al British Museum non si fa alcun cenno alle vicissitudini della stele. Questo museo è una manifestazione del potere coloniale, mentre dovrebbe diventare più democratico e offrire una narrazione del passato corrispondente a principi etici.

Non pensa, però, che anche in Egitto il patrimonio sia spesso usato in chiave ideologica? Ci riferiamo, ad esempio, alla «parata delle mummie» del 2021, quando le spoglie di faraoni e regine furono trasportate dentro sfarzosi carri funebri dallo storico museo di Piazza Tahrir al Museo nazionale della civiltà egiziana (Nmec), inaugurato per l’occasione dal presidente Al-Sisi.
Non ritengo la parata un evento di stampo nazionalista ma piuttosto un «revival egizio». Esiste, a dir il vero, un gruppo di ideologia fascista chiamato Figli di Khemet, che intende ristabilire la gloria dell’antico Egitto. Tuttavia, attecchisce unicamente sui social network. Il governo, invece, aveva organizzato quel corteo per risollevare il turismo, ottenendo una risposta positiva. Da allora gli egiziani hanno ripreso a frequentare i musei. Occorre anche sottolineare che in Egitto non ci sono libri di storia antica scritti in arabo. In questo ambito la divulgazione è rimasta appannaggio dell’Europa occidentale. Nei manuali scolastici, poi, tutto ciò che riguarda la civiltà egizia viene decontestualizzato. Se a ciò aggiungiamo la cattiva luce che il fanatismo cristiano e musulmano gettano da sempre sulla figura del faraone, si può facilmente comprendere che tra il popolo egiziano e il suo passato c’è una barriera. In tale quadro, la parata delle mummie va vista come una breccia, una finestra sul patrimonio.