Mentre la Life Support e la Sea-Eye 4 navigano da tre giorni verso la lontanissima Livorno, dove la prima arriva oggi e la seconda domani, il braccio di ferro tra governo e Ong si sposta in tribunale. Martedì davanti al Tar del Lazio si è tenuta l’udienza sul ricorso presentato da Sos Humanity contro il decreto interministeriale Interno-Infrastrutture-Difesa. A inizio novembre il provvedimento aveva vietato alla sua nave, la Humanity 1, la sosta in acque territoriali oltre il tempo necessario allo «sbarco selettivo» dei naufraghi ritenuti più fragili. La memoria depositata dall’avvocatura dello Stato, che rappresenta palazzo Chigi, non è ovviamente un provvedimento di legge ma è utilissima a prefigurare la strategia che seguirà il governo per dare una svolta alla gestione delle navi Ong.

TRE LE QUESTIONI principali: «sistematicità» delle attività di soccorso; individuazione del porto di sbarco; coinvolgimento dei Paesi di bandiera delle navi. La declinazione di questi tre nodi, che in sé non rappresentano una novità, conferma le indiscrezioni sul nuovo codice di condotta a cui sta lavorando il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e chiarisce le ragioni della nuova prassi di indicare un luogo di sbarco subito dopo il primo salvataggio.

SECONDO L’AVVOCATURA la «mirata e sistematica attività di perlustrazione delle acque antistanti le coste libiche» non rispetta, oltre alle norme sull’immigrazione, le convenzioni internazionali sul diritto del mare. Di cui le Ong si servirebbero in maniera strumentale: continuano a cercare barche in pericolo anche con i naufraghi a bordo fino a quando si creano situazioni di emergenza «tali da richiedere un immediato porto di sbarco». In pratica per rimanere nel marco delle normative sulla ricerca e soccorso (Sar) le navi devono dirigersi a terra al termine di ogni intervento.

RISPETTO AL Place of safety (Pos) l’avvocatura richiama la convenzione Amburgo-Sar che impone alle autorità di individuarlo con la «minima deviazione dalla rotta prevista». Ma, sostiene, le navi Ong non hanno un itinerario predefinito come quelle commerciali. Anzi, sarebbero loro stesse a violare la regola della minima deviazione restando nell’area di ricerca e soccorso.

INFINE, SICCOME i salvataggi non avvengono nella zona Sar di Roma e non sono da essa coordinati, la scelta di muovere verso l’Italia e di chiederle il Pos sarebbe arbitraria. Se Malta e la Libia non indicano un porto, cosa impossibile per il secondo paese considerato «non sicuro», il comandante della nave dovrebbe attivarsi con il suo Stato di bandiera affinché questo lo individui insieme all’autorità responsabile sul tratto di mare in cui è avvenuto l’intervento.

PER QUANTO RIGUARDA il primo punto finora le Ong hanno continuato a perlustrare la zona in cui più spesso avvengono i naufragi perché nessuna autorità indicava loro un porto. Il cambio di prassi governativa della scorsa settimana – con l’assegnazione immediata alle Rise Above, Life Support e Sea-Eye 4 – serve proprio a evitare che le missioni continuino e altri naufraghi siano messi al sicuro. Anche perché, sulla base del ragionamento illustrato sopra, il governo ha indicato porti lontanissimi. Con un alto numero di naufraghi a bordo e dopo vari giorni di attesa era rischioso, o in alcuni casi impossibile, navigare verso mete così lontane. Ma non sarà più così se l’indicazione arriva rapidamente e con meno persone sul ponte. In pratica l’applicazione alla lettera delle convenzioni internazionali pensate per tutelare la vita umana in mare serve a ostacolare le attività umanitarie giocando su una contraddizione che, effettivamente, esisteva: la permanenza nell’area dei naufragi.

SE IL GOVERNO mostra che le navi sono in grado di raggiungere luoghi di sbarco lontani può tornare a chiedere, su una base fattuale più forte, la turnazione dei porti tra i diversi Paesi costieri. In questa direzione sembra andare anche la sottolineatura delle responsabilità degli Stati di bandiera delle navi e perfino di quelli dove sono registrate le Ong. Così, però, la partita da giuridica diventerebbe politico-diplomatica e la controparte italiana non sarebbero più le Ong ma Paesi come Francia, Spagna, Germania o Norvegia (da capire cosa accadrebbe con la Life Support che batte bandiere panamense).

In ballo entrerebbero quindi gli aspetti complessivi della gestione Ue dell’immigrazione: movimenti secondari, cioè tra le frontiere europee; meccanismo volontario di redistribuzione; «dublinati», i migranti riportati nel paese di primo approdo. Su tutti e tre questi nodi l’Italia non gioca da una posizione di forza. Sono gli altri ad accogliere di più, in termini assoluti e relativi. Di gestione europea dei migranti ha parlato proprio ieri il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini in un incontro con la presidente del parlamento europeo Roberta Metsola.

INTANTO IL GOVERNO ha chiesto al tribunale di Trapani di costituirsi parte civile nel processo per associazione a delinquere e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina contro Iuventa, Msf e Save the Children. Le loro condotte avrebbero causato un danno patrimoniale e morale al Viminale e questo legittimerebbe la richiesta di risarcimento in caso di condanna.

Ieri a Lampedusa sono arrivate autonomamente 11 barche, con 385 persone. Sull’isola greca di Lesbo, invece, è stato trovato il cadavere di una neonata.