È trascorso quasi un anno dal raid senza precedenti della polizia nella sede del sindacato della stampa: il primo maggio i poliziotti entrarono per portare via due giornalisti, Amr Badr e Mahmoud al-Sakka, ricercati per «diffusione di notizie false» e «incitamento al golpe».

Venerdì Badr è stato eletto alla segreteria del sindacato. Le elezioni interne si sono chiuse con la sconfitta del segretario uscente Qallash, che nell’ultimo anno ha guidato la lotta dei media contro il governo di al-Sisi, e la vittoria di Abdel Mohsen Salama, caporedattore del quotidiano governativo al-Ahram.

Il voto ha spaccato il sindacato tra i sostenitori di Qallash, dipinto come il candidato anti-sistema, e quelli di Salama, accusato di essere uomo dello Stato. Sullo sfondo resta un anno trascorso in prima linea, segnato dal drammatico bilancio di 29 giornalisti in carcere: dopo due anni di oblio, il 2016 ha visto la ripresa delle proteste anti-governative, epicentro proprio il sindacato della stampa.

Seppur limitate ed estemporanee (eccezion fatta per quelle organizzate di aprile 2016 contro la cessione delle isole Tiran e Sanafir all’Arabia Saudita), le manifestazioni non si spengono: sono esplose per il taglio dei sussidi di pane e latte artificiale, l’arresto di operai in sciopero, la crisi idrica. Sono esplose nelle città della costa, ma anche nelle periferie dimenticate a nord e a sud.

Il regime appare più forte all’esterno che all’interno: le lotte occidentali all’immigrazione e il terrorismo hanno elevato al-Sisi a difensore degli interessi europei nel Mediterraneo e l’autoritarismo del regime è finito sotto il tappeto.

Le ultime settimane hanno palesato la rete di interessi comuni, che passa ogni giorno di più per le rotte intraprese dai migranti. Chiusa quella balcanica dall’accordo con la Turchia, puntellata quella libica con il memorandum d’intesa Roma-Tripoli, ora nel mirino c’è quella egiziana: punto di partenza è il Delta del Nilo.

I numeri li dà l’esercito egiziano: dal 21 febbraio al 13 marzo sono stati arrestati 398 migranti ai confini ovest e sud. Sono accusati di «infiltrazione e immigrazione illegale». «Vengono arrestati, portati in un centro di detenzione e messi sotto inchiesta dalla Sicurezza Nazionale – spiega all’agenzia indipendente Mada Masr Mohamed al-Kashef, esperto in migrazioni per l’Egyptian Initiative for Personal Rights – La Sicurezza Nazionale decide poi se deportarli o meno». Ad attenderli detenzioni durissime, un fato che accomuna gli oltre 4.600 rifugiati arrestati in Egitto nel 2016 (dati Unhcr).

L’Europa ha individuato nel Cairo un altro cane da guardia: a sancirne ruolo e impunità sono istituzioni internazionali e governi europei. Due giorni fa la Nato ha accolto l’Egitto, riconoscendogli un ufficio diplomatico permanente, dopo una serie di incontri incentrati su lotta a terrorismo e immigrazione clandestina.

E il 2 marzo Angela Merkel si è presentata al Cairo con 500 milioni di dollari in aiuti allo sviluppo economico e sostegno alle medie e piccole imprese in cambio di un’intesa per il rafforzamento dei controlli alle frontiere.

Denaro e legittimazione, tributata dall’intero spettro istituzionale internazionale. Un altro buon esempio è stato dato ieri dal meeting ospitato dal Cairo di Unione Europea, Onu, Lega Araba e Unione Africana sulla questione della crisi libica, anche questa fiore all’occhiello di al-Sisi che si veste da mediatore per nascondere l’uniforme da incendiario nella rivalità Tripoli-Tobruk.

La rinnovata buona stella egiziana ha attirato anche l’Arabia Saudita, alleato di ferro fino a qualche mese fa. Dopo il breve capitolo della Fratellanza Musulmana, tra Riyadh e Il Cairo la ritrovata amicizia era stata sancita dalla guerra senza quartiere di al-Sisi ai Fratelli e il conseguente finanziamento di 12 miliardi di petroldollari al nascente regime.

Ad aprile 2016, con la crisi economica che già mordeva, i sauditi si erano comprati la sudditanza egiziana con 35 miliardi di investimenti, depositi e prestiti e l’impegno ad inviare 700mila tonnellate di greggio al mese per cinque anni. Fino a sei mesi fa quando la fornitura è stata sospesa a seguito della svolta egiziana in Siria, espressa da una serie di voti all’Onu che davano Il Cairo più vicino a Mosca che a Riyadh.

Ma i rapporti si starebbero scongelando: ieri il Ministero egiziano del Petrolio ha annunciato la ripresa delle forniture di greggio saudita. È la politica, dice l’ex diplomatico saudita Abdullah Al Shammri al Financial Times, del «perdona e dimentica». Con al-Sisi sugli allori e l’Iran alla porta, i Saud riabbracciano l’Egitto.