Si intitola Monster, il primo film visto in concorso a Cannes 2023. È diretto dal giapponese Kore-Eda Hirokazu, un regular del festival (l’anno scorso era qui con il film coreano Broker; fu Palma d’oro nel 2018 con Shoplifters), che però torna con un film atipico rispetto ai suoi squarci di vita, aperti come istantanee all’inafferrabilità delle cose, e segnato da due collaborazioni importanti. Quella con lo sceneggiatore Sakamoto Juji, che cofirma il copione (Kore-Eda in genere scrive da solo) e quella con il grande musicista Ryuichi Sakamoto, scomparso a marzo scorso, e di cui Monster è l’ultima colonna sonora.

«Anselm» di Wim Wenders

JUJI – un popolare autore della tv giapponese – porta ai temi ricorrenti di Kore-Eda – l’infanzia, la decostruzione del nucleo famigliare tipico che si ricompone liberamente aldilà dei vincoli di sangue, l’abbandono, il crimine… – una struttura drammatica inedita, ad incastro. Monster è infatti un film puzzle, che inizia con l’immagine di un grosso edificio in fiamme e poi ripercorre la stessa trama da più punti di vista. Il primo è quello di una giovane vedova (Ando Sakura, già in Shoplifters) che osserva suo figlio Minato (il quattordicenne Kurokawa Soya) comportarsi sempre più stranamente. Convinta che il bambino sia oggetto delle persecuzioni di un insegnante, la donna intenta una protesta con la scuola, presieduta da una direttrice taciturna e reduce da un grande lutto. Il punto di vista del maestro (Nagayama Eita), pieno di buone intenzioni ma afflitto da un sorriso inquietante, racconta una storia completamente diversa. E il puzzle trova finalmente il suo senso quando, nella terza parte del film, il racconto raggiunge Minato, e un suo compagno di scuola un po’ folletto, ostracizzato dal resto della classe.
Kore-Eda ha sempre dimostrato grande affinità con i bambini e gli anziani – che la società rende più fragili, ma che nei suoi film spesso contrastano quella fragilità con una dolce, ostinata luccicanza. Monster non fa eccezione e, nel suo terzo atto, assume la dimensione magica di una fiaba, esilarante e triste.
La struttura alla Rashomon è effettivamente più laboriosa del respiro a cui Kore-Eda ci ha abituati finora, e ogni tanto quell’extra dose di scrittura si sente, specialmente nella risoluzione finale un po’ troppo matematica.
Ma già l’esperienza coreana di Broker, e subito prima, quella francese di The Truth (con Catherine Deneuve e Juliette Binoche) sembravano indicare, da parte del regista, la ricerca di una direziona diversa. Nelle note di produzione del film, Kore-Eda descrive così l’essersi sentito (da anni) accomunato ai temi espressi dalle sceneggiature di Juji – «era come se inalassimo la stessa aria ma la esalassimo diversamente». In Monster, aggiunge: «Abbiamo coordinato il nostro respiro». Parte di quella coordinazione ha significato anche un lavoro modificato con gli attori, che – diversamente dal solito – hanno dovuto attenersi alla sceneggiatura. E questo vale anche per i bambini a cui in genere Kore-Eda non faceva vedere lo script. «Coltivo sempre costanti dubbi sulle mie sceneggiature. In questo caso, dato che era scritta da un altro, sul set non dovevo rivisitare i miei errori. Tutto era nitido e quindi durante la lavorazione mi sono divertito molto».

WIM WENDERS – a Cannes con due film – torna al 3D che aveva usato per il suo studio su Pina Bausch, Pina. L’oggetto dell’esplorazione plastico/filmica del regista tedesco questa volta non è la danza ma l’arte di Anselm Kiefer, un’arte che – data la sua monumentalità, la sua qualità architettonica e i suoi soggetti, ancorati alla storia della Germania, si rivela un match perfetto per Wenders. Anselm rivela Kiefer mostrandolo al lavoro sui suoi quadri enormi, tra le macerie delle sua installazioni -a cui si contrappongono quelle della Germania devastata dai bombardamenti – in bicicletta tra le opere negli studi vastissimi che ha usato fin da giovane, in interviste di repertorio e conversazioni filmate adesso, e anche in alcune ricostruzioni drammatiche.