Un sorriso per mascherare la timidezza, prima di raccontare la sua storia, un incubo che diventa favola. Mohamed Abinur lavora da oltre un anno alla Roll Plast Pinto, azienda di Polla, in provincia di Salerno, prodotti per applicazioni edili.

Il titolare, Giuseppe Pinto, prima di informarlo dell’intervista, confida che è il miglior impiegato della sua fabbrica, che negli anni ha accolto sette migranti. Mohamed ha in tasca un permesso di soggiorno di cinque anni. È un rifugiato politico.

A casa sua, in Somalia, c’era (conflitto dal 1991 e ancora in atto) la guerra civile. Il pensiero alla sua famiglia avvolta dal sangue vela di tristezza l’ultimo frammento della sceneggiatura della sua vita. Che per ora è a Polla. Una casa in affitto, un contratto di lavoro a tempo determinato, di tre anni. Un gruppo di amici, anche connazionali, con cui dividere il tempo libero. Sospiri di vita ordinaria per un ragazzo di 25 anni.

Per Mohamed però si tratta del lato B del suo percorso. Un sorso d’acqua e un lungo respiro, prima di mostrare il primo. «Ora mi sembra tutto una favola, non è sempre andata così, anzi». Il primo distacco dalla Somalia avveniva per il Kenya. «Ci viveva mia zia, a una manciata di chilometri da Nairobi, sono andato a scuola per cinque anni, ho imparato l’inglese, lo swahili, oltre a lavorare per un’impresa edile. Ma non c’era lì un futuro per me, dovevo andare via. Per pochi soldi però ti portavano solo in Sudan». L’inferno per Mohamed è cominciato in Libia, la meta preferita dai migranti, terra di lavoro a un passo dall’Italia, un passpartout per un altro capitolo, o punto di partenza per altre mete europee.
Nel frattempo, c’era da lavorare duro, pochi spiccioli per costruzioni edilizie da mettere in piedi.

«Ma quante violenze, quanti episodi di sopraffazione, di prigionia immotivata – racconta Mohamed -, ho vissuto un anno e cinque mesi prima a Bengasi, un anno in prigione perché non avevo documenti da mostrare a un poliziotto. Come me, almeno mille, uomini e donne, finiti dentro in un solo blitz». La nottata spesso non passava mai. «Botte, botte, violenza a tappeto, senza motivo. Un incubo, non potevi ribellarti ai poliziotti in carcere, non avevi niente cui appigliarti. Solo ai tuoi sogni».

Poi, una volta in libertà e giorni vissuti per strada senza mangiare, Mohamed iniziava a lavorare nei campi per un uomo che si aggirava nelle carceri, alla ricerca di manodopera. Non a pagamento, ovviamente. Lavoro senza orari «e un solo pasto al giorno, la mattina» ricorda Mohamed. Che ben presto tornava in carcere. Motivo? Sempre lo stesso, documenti non esibiti alle forze dell’ordine.

Ancora Bengasi, poi trasferimento a Misurata, fino a Tripoli. «Lì è cominciata la seconda fase della mia vita, sono salito su una nave diretta a Lampedusa, ho pagato 800 euro, quello che avevo da parte. E poi da lì a Casaro, vicino Siracusa, sette mesi, fino all’ultima meta, Polla». Un passaggio per lo Sprar di Polla, assieme ad altri connazionali. Ed era lo stesso Sprar a inoltrare la richiesta di tirocini formativi in alcune aziende della Valle di Diano.

Sino all’arrivo alla Roll Plast, che già aveva accolto sette migranti, alcuni poi messo sotto contratto. E sono circa 30 quelli che hanno trovato impiego, una casa, un nuovo capitolo di vita nel Cilento. Per Mohamed, sei mesi di tirocinio e la richiesta, subito approvato dal suo titolare, di un lavoro fisso. «Ora finalmente posso mandare soldi a casa, aiutare la mia famiglia che è ancora lì, che vorrei riabbracciare presto, a cui penso sempre».

La discussione sui migranti che avvolge l’Italia lo tocca, così come i pregiudizi, i luoghi comuni. «Sono solo un ragazzo che voleva una vita migliore, un’opportunità, un lavoro. Ora posso mostrare a me stesso e agli altri che sono in grado di farlo. E come me, tanti potrebbero».