In Brasile si dice che Brasil não é por principiantes ed effettivamente il rocambolesco panorama politico attuale sembra superare di gran lunga la sceneggiatura della migliore telenovela brasiliana. Un puzzle di 1500 pezzi monocromatici a volte interrotto da alcuni strategici deliri presidenziali funzionali a sviare l’attenzione dal clima complottista, o quantomeno torbido, della politica da ormai un anno.

Iniziamo dal 31 marzo, giorno in cui il presidente Bolsonaro decreta la celebrazione del colpo di stato, avvenuto il 31 marzo 1964.

La proposta è bocciata dal Congresso e il presidente grida «Si tratta di stalinismo! Vogliono cancellare un fatto storico». Gli fa eco il nuovo generale e capo del ministero della difesa, Braga Netto: «Il movimento del 1964 fa parte della traiettoria storica del Brasile. Quindi, gli eventi di quel 31 marzo dovrebbero essere compresi e celebrati». Del resto il presidente. i suoi figli e il suo sempre più piccolo entourage non hanno mai fatto mistero di essere dei sostenitori della dittatura arrivando a dichiarare, in riferimento alle associazioni delle famiglie dei desaparecidos, che «chi cerca ossa, sono i cani».

La perdita di controllo – e di senso – del presidente è sempre più evidente. Si passa dall’elogio della gestione della crisi sanitaria da parte del generale Pazuello nel giorno delle sue dimissioni (18 marzo), in cui si registravano 2.724 morti in 24 ore; alla presentazione (il 15) di un’azione di incostituzionalità alla Corte suprema federale contro i decreti emanati dai governatori contenenti misure restrittive, tra cui il lockdown, in cui il presidente dichiara: «Questo (coprifuoco) è uno stato di difesa, uno stato di assedio, c’è solo una persona che può decretarlo: io», definendo le misure restrittive di governatori e sindaci «progetti dittatoriali» che avrebbero, con i loro atti, il potere di «usurpare» la Costituzione. Puro delirio autoritario.

I dubbi sulla sanità mentale del presidente del resto non vengono più celati. Nelle sempre più frequenti riunioni di banchieri e impresari che avvengono a São Paulo sotto gli occhi di tutti, non si nasconde insoddisfazione e irritazione – «nessun dialogo è possibile con il presidente, Bolsonaro non è in grado di approfondire alcun argomento, è solo capace di fare battute e imprecare volgarmente» – e l’esistenza di una gestione parallela della politica brasiliana, lontana da Brasilia.

L’appoggio di Bolsonaro dipende da loro e non sembra durerà ancora a lungo. Ecco uno dei primi punti su cui concentrare l’attenzione nell’intricata sceneggiatura della politica brasiliana, oltre ai militari che meritano un discorso a parte. .

Quando ci si chiede come sia possibile che un tale inetto abbia ancora il 30% dell’appoggio dell’elettorato brasiliano si compie un errore di calcolo. Recentemente un sondaggio Datafolha dà l’approvazione intorno al 15-20%. Nulla di strano in un 15% di elettori iper-conservatori. Qualsiasi paese ne raccoglierebbe altrettanti.

Il restante è invece costituito da quello che viene comunemente definito il centrão (il centrone), un gruppo di persone e sigle che occupano il sottobosco del Congresso nazionale, rappresentando interessi e richieste individuali o di gruppo locali ed eterogenei. Uno degli esempi è la bancada ruralista – la frangia dei rappresentanti dell’agrobusiness. Non sono gruppi con un’ideologia politica o un piano per il paese, sono mossi da semplici interessi economici. Sono sempre esistiti e hanno appoggiato tutti, da FHC a Lula, da Dilma a Temer.

Il problema è che questo gruppo non ha condizione, interesse o capacità autonoma per formare o sostenere un governo per proprio conto, rappresentando interessi corporativi non sempre conciliabili. Le loro richieste più urgenti sono le dimissioni dei ministri degli esteri, Ernesto Araújo, e dell’ambiente, Ricardo Salles, considerati responsabili, insieme al presidente, dell’immagine «nefasta» del Brasile all’estero che, oltre a danneggiare direttamente le imprese, ostacola anche i negoziati per i vaccini da Cina e India (Araújo) e dagli Stati Uniti (Salles, indirettamente per la criticata politica ambientale brasiliana).

La prima richiesta è stata soddisfatta con le dimissioni presentate dal cancelliere dopo una settimana di forti pressioni concludendo quella che è stata definita come una gestione senza precedenti della diplomazia brasiliana. Tra le azioni che l’hanno caratterizzata: l’attacco alle principali organizzazioni internazionali come Oms e Onu; l’abbandono di cooperazioni internazionali come i Brics e con i paesi africani per l’assunzione di una politica estera subordinata agli Usa; l’allineamento con paesi come l’Arabia saudita contro la promozione di azioni a favore dell’educazione sessuale e della parità di genere; l’arretramento di ogni politica ambientale, l’allontanamento dagli accordi di Parigi e la diffamazione e l’incriminazione dei popoli indigeni.

A completare lo scenario grottesco – ricordando il discorso di inaugurazione di Araújo: «Ammiriamo coloro che lottano contro la tirannia in Venezuela e altrove. Per questo ammiriamo la nuova Italia, l’Ungheria e la Polonia, ammiriamo chi si afferma e non chi si rinnega» – il ministero degli esteri passa a Carlos França, ufficiale cerimoniale di palazzo privo di qualsiasi carriera diplomatica, ma amico di uno dei «figli presidenziali». Salles per ora rimane al suo posto, non si sa per quanto visto il susseguirsi di dimissioni e nuove nomine che caratterizza il governo Bolsonaro.

Negli ultimi giorni, oltre a forze armate, difesa e esteri, sono cambiati il capo della segreteria del governo, della Casa civile e della Giustizia. Durante l’anno di pandemia il Brasile ha cambiato quattro ministri della salute. Uno peggiore dell’altro portando al protrarsi di macabri record: ieri 3.869 morti in 24 ore.

E poi ci sono i militari che come risultato della crisi della relazione con il presidente finiranno – secondo José Luís Fiori, professore di Economia politica internazionale dell’Università federale di Rio de Janeiro –finiranno col dividersi in turma da farda e turma do pijama. Ossia i militari in divisa e quelli in pigiama, questi ultimi quelli più vicini al presidente tranne due figure centrali ed estremamente oscure : il vice presidente generale Mourau e il nuovo ministro della difesa Braga Netto dalle cui decisioni sembra definirsi l’evolversi della situazione.

Tutti i militari licenziati o che hanno abbandonato l’incarico nelle ultime ore – i comandanti dell’esercito Pujol, della marina Barbosa Junior, dell’aereonautica Bermudez, insieme al ministro della difesa Azevedo e Silva – rappresentano la parte dei militari in divisa che mantiene salda l’indipendenza delle forze armate dall’esecutivo, contro il volere del presidente.

Bolsonaro cerca di avvicinarsi alle forze armate – volendo da loro dimostrazioni pubbliche di posture filogovernative – loro invece lo allontanano. Le élite finanziarie hanno ormai esaurito la loro pazienza e preso quello che si poteva prendere. Il mito resta sempre più isolato, attorniato solo dai suoi fedelissimi incapaci o molto machiavellici, una cerchia di amicizie miliziane e i suoi figli 1 2 3 4 indagati per appropriazione indebita di fondi pubblici, assunzione di dipendenti fantasma, acquisto di immobili con pagamento in contanti e il coinvolgimento nell’organizzazione di manifestazioni per la chiusura del Congresso e la Corte suprema federale.

Quello che appare abbastanza sicuro è che Bolsonaro non durerà ancora a lungo, resta da chiedersi come uscirà di scena. Se per volontà dei banchieri, impresari, proprietari terrieri parte del centrão e quindi con l’orchestrazione di un impeachment – che l’esperienza Dilma, ma anche l’operazione Lava Jato dimostrano ampiamente possibile – oppure se saranno i militari stessi a farsi carico di rimuovere questo signore dalla presidenza, costringendolo a dimettersi o – nelle esplicite parole di Fiori in una intervista a Carta Capital – facendolo internare.