«Nessuno mette i suoi figli in una barca a meno che l’acqua sia più sicura della terra». Non è stato questo il caso. Il bilancio dei morti e dei dispersi è ancora incerto per l’ennesima, annunciata tragedia consumatasi sabato notte nelle acque internazionali appena a largo delle coste di Tripoli, nord del Libano, quando un’imbarcazione colma di migranti è affondata.

SEI I MORTI ACCERTATI dall’esercito libanese e dalla Croce rossa, tra cui una bimba, due corpi esanimi trovati ieri, una cinquantina le persone portate in salvo. Sono ed erano libanesi, palestinesi e siriani.

Non si sa ancora quante persone fossero a bordo, probabilmente tra 80 e 90. Tre bambini di quattro, sei e otto anni, la cui madre è annegata, mancano ancora all’appello.

Due le versioni, discordanti. In una nota ufficiale, la marina ha detto che l’imbarcazione contenete più persone rispetto alla propria capacità è affondata immediatamente dopo aver impattato una delle tre navi della marina.

L’altra versione, riportata da più naufraghi, è che una delle navi della marina, dopo aver intimato l’alt non rispettato, ha impattato due volte l’imbarcazione che è quindi affondata. Questa la ricostruzione di Maher Hamouda, 23 anni: «L’ufficiale ci ha intimato di fermarci, ma noi non l’abbiamo fatto. Poi ci hanno speronato due volte. Stavamo affogando, ma hanno spento le luci e se ne sono andati».

IL RISENTIMENTO è incontenibile. Domenica e ieri pomeriggio si sono registrati scontri tra la popolazione tripolina e l’esercito. Colpi di arma da fuoco sono stati esplosi ripetutamente durante i funerali delle vittime e molte strade sono state bloccate.

Le proteste si sono estese anche a Saida, a sud della capitale, e a Beirut, dove dozzine di manifestanti hanno organizzato un sit-in davanti all’abitazione del primo ministro Najib Mikati.

I PROFUGHI erano diretti in Italia, come quelli intercettati l’ottobre scorso dalla marina greca e dirottati in Turchia. Anche in quel caso libanesi e siriani.

Quella italiana è la rotta oggi privilegiata, viste le politiche repressive e disumane greche nei confronti dei migranti, già denunciate da Oxfam e altri osservatori internazionali. Secondo l’Onu, già una quarantina le imbarcazioni salpate dalle coste libanesi dal 2020.

La più grave crisi economica della storia del paese iniziata nel 2019 vede il 74% della popolazione vivere oggi in povertà. Se si prendono in considerazione i dati di accesso a sanità, educazione e servizi pubblici la percentuale sale all’82%, il doppio del 42% del 2019.

Questi i numeri del report annuale dell’agenzia Onu Escwa sulla «Povertà Multidimensionale» in Libano del settembre 2021. Numeri certamente più alti oggi, con la guerra in Ucraina che ha fatto schizzare i prezzi del gas, della benzina e della farina, da cui il Libano importa il 60% del suo fabbisogno.

Crisi reale e speculativa, in un paese che non ha organi di controllo: ieri la lira, agganciata al dollaro, ha raggiunto al mercato nero quota 2.,800 per un dollaro, che però continua ad avere un tasso ufficiale di 1.507 lire.

La dollarizzazione di un’economia neoliberista basata sul terziario – il Libano importa l’80% dei beni primari e secondari – e che in passato ha contribuito alla bolla finanziaria scoppiata nel 2019 taglia adesso fuori dalla vita sociale intere fasce di popolazione, crea nuovi poveri, instabilità e tanta disperazione.

IL FONDO MONETARIO internazionale ha appena immesso tre degli undici miliardi di dollari promessi nelle casse dello Stato, che dovrebbero arrivare a patto di riforme strutturali. E il 15 maggio ci saranno nuove elezioni parlamentari che in teoria potrebbero sbloccare l’impasse.

Ma trovare la quadra in un paese che si fonda su una logica di corruzione, nepotismo e di spartizione di un potere multicentrico non si preannuncia impresa semplice.