Dopo una settimana in cui la Corte Suprema aveva regalato diritti ed emozioni, tutelando la comunità Lgbtq dalle discriminazioni sul lavoro e i Dreamers, giovani americani arrivati illegalmente negli Stati uniti al seguito dei genitori, dal pericolo di espulsione, ieri è arrivata una brusca retromarcia.

Con 7 voti a favore e 2 contrari il massimo tribunale Usa ha sentenziato che i richiedenti asilo le cui domande sono state respinte, non hanno diritto a far ricorso in tribunale e che la legge federale per cui si consente l’espulsione veloce dei richiedenti asilo non viola la Costituzione.

Il caso era stato presentato da Vijayakumar Thuraissigiam, cittadino dello Sri Lanka di etnia tamil, il quale aveva denunciato di essere stato rapito e picchiato in patria, ed espulso dagli Stati Uniti, dove era entrato senza documenti. Thuraissigiam non aveva avuto la possibilità di appellarsi alla decisione degli agenti dell’immigrazione; l’Illegal Immigration Reform and Immigrant Responsibility Act, infatti, permette di espellere i richiedenti asilo entro due settimane, se fermati entro 100 miglia dal confine, senza dover passare attraverso la decisione di un giudice. La Corte d’appello del Nono Circuito si era schierata a favore di Thuraissigiam ma la Corte Suprema ha ribaltato il verdetto. Edwin Kneedler, un avvocato del governo federale, ha dichiarato al New York Times che ci sarebbero state buone ragioni per aspettarsi un’inondazione di ricorsi se la Corte Suprema avesse confermato la sentenza del Nono Circuito.

L’avvocato di Thuraissigiam è di parere completamente diverso: Lee Gelernt dell’American Civil Liberties Union, ha affermato che le richieste di ricorso da parte dei richiedenti asilo sono rare e che da quando il Nono Circuito ha autorizzato i ricorsi, in un anno solo una trentina di persone su oltre 9.000 immigrati a cui era stato negato l’asilo, l’avevano presentato.

Non è un mistero che la presidenza Trump sia un problema multiplo per gli immigrati, ma in un momento in cui la società civile statunitense si sta sollevando per contrapporsi al razzismo sistematico, i soprusi non passano sotto l’usuale silenzio, e se non si può ribaltare una decisione della Corte Suprema, si può comunque tenere alta l’attenzione.

La diffusione di un video dove si vede un uomo ispanico, Carlos Ingram Lopez, 27 anni, morire durante un arresto, è arrivata durante la quarta settimana consecutiva di manifestazioni che, dalla morte di George Floyd, negli Usa non si sono mai fermate. L’episodio è avvenuto a Tucson, Arizona_ il video diffuso dalla polizia dopp oltre due mesi dall’episodio mostra gli agenti inseguire l’uomo dentro una casa, ammanettarlo e tenerlo con la faccia a terra per 12 minuti mentre chiede dell’acqua mormorando «non posso respirare», come nel caso di Floyd e di Eric Garner, prima di morire.

I tre agenti coinvolti nell’omicidio hanno presentato le loro dimissioni, come ha fatto il capo della polizia di Tucson, Chris Magnus. La sindaca di Tucson, Regina Romero, prima latina a guidare una città a maggioranza largamente ispanica, si è detta «profondamente turbata e indignata» offrendo le condoglianze alla famiglia della vittima.
Quando la notizia si è diffusa a New York, dopo 4 settimane di manifestazioni per la riforma della polizia, un centinaio di attivisti ha occupato il City Hall Park, davanti il municipio, intenzionati a rimanere lì fino a quando il budget di 6 miliardi di dollari per la polizia non sarà ridotto e reinvestito in alloggi, assistenza sanitaria e servizi sociali, come promesso dal sindaco Bill De Blasio. L’approvazione del budget è prevista per il 30 giugno.