Fare documentario stando accanto. In prossimità dei corpi e degli occhi di tre ragazze afgane che si allenano sulle piste da sci di Banyam, con il desiderio di librarsi su un aereo che dal loro Paese le porti in Europa a ottenere la patente da istruttrici e forse un giorno a partecipare alle Olimpiadi.  

Con loro, tra i tetti imbiancati degli altopiani che disegnano lo sguardo in quei luoghi –  un gallo nell’inquadratura – tra donne che portano pesi in equilibrio sulla testa, come accadeva nel sud Italia; con loro quando Zakia informa i genitori della sua ferrea volontà di partire e, in caso, di non farsi fermare dal suo futuro marito. Quando la madre di Fariba dice che vuole sia lei, la sua campionessa, ad andare, e non il figlio maschio. Quando quest’ultima, la più giovane, teme che un incidente avuto tempo prima possa precluderle di partecipare al progetto ideato dalla scuola di sci di Banyam tramite una rete di istruttori europei. Quando  Fatima e Fariba scherzano, prima di allontanarsi in moto lungo strade infangate, dopo aver guardato furtivamente verso chi le riprende con la telecamera. Quando dopo una discesa sono sul podio con in premio anche un assegno dal formato gigante. 

Un libro di inglese lasciato all’aperto a ricoprirsi di neve, la preoccupazione delle famiglie che resta sospesa nell’aria come l’impasto nel gesto domestico di fare il pane e la voice over di una di loro che riflette su come in Afghanistan gli uomini utilizzino erroneamente la religione come scusa per fondare il loro potere, per cercare di impedire alle donne di lavorare e viaggiare, e per costruire intorno a loro una prigione. L’Europa dunque, e la speranza dei visti, diventa per tutte non solo un sogno di realizzazione come professioniste – tra opportunità di impianti e supporti federali – ma anche e soprattutto una prefigurazione di liberazione e di emancipazione di genere. 

Diventa il sogno di una casa altra, la casa della costruzione di sé lontana dall’abitudine alla sopravvivenza, dall’angoscia della vita sotto le bombe. A questo guarda Melting dreams, il documentario di Haidy Kancler, che dispiega in pieno le riflessioni sorte lungo il tracciato del Middle East Now di Firenze (dal 4 al 9 ottobre), festival sempre guidato da Lisa Chiari e Roberto Ruta e concepito come rassegna rivolta alla cultura mediorentale in una accezione multiforme, tra cinema documentari musica arte cibo e mostre.

An abstract from home è infatti il tema della tredicesima edizione. Dove casa, anche secondo il co-curatore della selezione, l’artista libanese Roï Saade, è da intendersi in senso lato anche come immersione nel passato della cinematografia irachena (accade in Take me to the cinema di Albaqer Jafeer), o come teatro di dinamiche tra quattro sorelle in Giordania, dove sono specchi dei loro diversi gradi di coscienza e della possibilità di incidere su una società ancora in gran parte biecamente patriarcale – accade in Daughters of Abdul-Rahman di  Zaid Abu Amdan,  dove la dimensione teatrale dai caratteri all’inizio troppo parossistici si apre a una regia più sfaccettata e poetica; o ancora “casa” come ritorno straniante alle radici in una Beirut tormentata vista dall’alto di notte nell’incipit di The sea ahead di Eli Dagher… 

Lasciare dunque, la propria casa e la famiglia in Afghanistan, come succede in Melting dreams. Per di più  con la rarissima opportunità di farlo gratuitamente e con il supporto della federazione. Cosa che – lo spiegano gli istruttori alle ragazze prima dell’agognatissima partenza – significa agire in modo da aprire un varco tra le rappresentazioni negative che spesso accompagnano le migrazioni dei rifugiati afgani in Europa, l’idea che vengano forzati solo dal bisogno e che non vorranno più andar via, l’idea che lì per le donne non ci sia alcuna chance, né istruzione né speranza.  

É un’immagine differente di sé e del loro Paese che Zakia Fariba e Fatima – prima dell’orribile regressione dei fatti del 2021 –   sono invitate a trasmettere ai coetanei in ritiro in Slovenia, tappa iniziale di questa loro rivoluzione ingaggiata attraverso il viaggio e lo sport.  

Immagine che costruiscono con gli allenamenti, in palestra e in pista, imparando a essere in orario agli appuntamenti con l’istruttrice, cercando vie di interazione di fatto non facili con le altre ragazze. Spesso – raccontano alla referente – sono tenute a distanza. Quando alcune chiedono loro delle feste, Zakia risponde che in Afghanistan non sono permesse. Allora una musica disco risuona tra i tetti ghiacciati, tra i ganci delle piste di notte deserte. 

È la musica del desiderio negato, della rappresentazione mitica dell’Europa coltivata e insieme strumentalizzata in Afghanistan. Per Fatima, Zakia e Fariba è un impatto immenso, un processo di incredibile complessità da affrontare con in tasca solo la loro giovinezza la passione per lo sport e la loro amicizia. 

Allora potrà anche farsi strada una istanza centrifuga, a disperdersi e a non tornare più indietro: quella fuga che è nucleo centrale di Malikates (Queens)  di Yasmine Benkiran, scelto da Venezia 79 – road movie in cui note più prevedibili sulle tracce di Telma e Louise, trovano vie creative legate alle forze mitiche celebrate da Clarissa Pinkola Estés. 

Ma in Melting dreams possono i sogni e gli universi davvero miscelarsi, compenetrarsi? Ecco, la camera entra tremando in una chiesa cattolica, è la prima volta per le ragazze. Documentare stando accanto. La regia lo fa fino quasi a far sentire il fiato di Fariba che per il freddo produce una piccola nuvola di condensa. Sul registro, lasciando la firma, scrive, pregate per delle ragazze che domani hanno il loro test di sci…

Nel 2014 al Middle East sul manifesto avevo intervistato Nima Sarvestani: con il suo No Burqas Behind Bars era anche riuscito a liberare una delle ragazze rinchiuse ingiustamente del carcere afgano narrato nel documentario.  Ecco, in Melting dreams – e non solo – il punto è come il cinema possa, espandendo la visione, dilatare la sfera del possibile, esaudire quella preghiera.