Non è forse un caso che la citazione che meglio sembra racchiudere lo spirito, e la straordinaria e dirompente forza evocativa e pregna di interrogativi che sprigiona dalle pagine di Stirpe e vergogna di Michela Marzano (Rizzoli, pp. 396, euro 19), non sia di una storica o di uno studioso del Novecento. Le parole che definiscono in modo più preciso il percorso compiuto dall’autrice nella sua drammatica discesa agli inferi all’interno della memoria nazionale, o meglio dell’assenza o dell’estrema parzialità di essa, attraverso uno scavo nei ricordi famigliari, intimi, affettivi sono di uno scrittore, di chi più e meglio di altri ha saputo dar voce alle nostre paure rimosse o celate, ai nostri peggiori incubi.

«Denuda uno scrittore, indicagli tutte le sue cicatrici e saprà raccontarti la storia di ciascuna di esse, anche della più piccola. E dalle più grandi avrai romanzi, non amnesie», spiega Stephen King citato da Marzano. Una frase che dà letteralmente «corpo» allo scavo sul fascismo rimosso che è iscritto nella storia italiana che lei ha sentito di volere, ma forse sarebbe il caso di dire «dovere» compiere a partire dalla propria vicenda famigliare. Il proprio vissuto consapevole e ciò a cui, pur avvertendone la presenza in sé e intorno a sé, non era ancora riuscita a dare fino in fondo un nome.

PERCHÉ IN QUESTO LIBRO, in parti uguali e allo stesso tempo memoir, romanzo e indagine storica, la filosofa, scrittrice, editorialista e già parlamentare del Pd, ricostruisce la storia di suo nonno, Arturo Marzano, che fu un fascista della prima ora e che al fascismo rimase fedele per tutta la vita.

Il drammatico punto di partenza di Marzano risiede però proprio nella scoperta di tutto ciò, di come nella sua famiglia di sinistra, il padre da sempre socialista da bambini insegnava a lei e al fratello «Bandiera rossa» o le canzoni della Resistenza, e che quando loro erano ancora poco più che ragazzini, alla fine degli anni Settanta li aveva invitati a seguire in tv la serie Olocausto, su tutto ciò fosse calata una patina di oblio, simile alla polvere che nelle cantine di qualche zia ricopriva, conservandole ancora accanto ad ogni sorta di cianfrusaglie, le carte di «nonno Arturo». Un’assenza, un’amnesia avviluppata nei ricordi affettuosi di un uomo che aveva passato gli ultimi vent’anni della propria vita su di una sedia a rotelle e che prima era stato un marito e un padre presente e tenero che si trasforma quasi in un’ossessione per l’autrice che coglie nei silenzi, in quella storia celata così a lungo nei cassetti della memoria famigliare, o su cui nessuno dei suoi cari fino a quel momento aveva sentito di dover fare luce, un peso opprimente e un’ombra costante da sempre avvertita sulla propria vita.

L’INDAGINE CHE SEGUE si traduce nel disvelamento di una vicenda simile a così tante altre nel Paese, ma che proprio in virtù del fatto che attraversa territori così intimi e privati come quelli che chiamano in causa i sentimenti e gli affetti, ha un effetto potente, incomparabile, per certi versi catartico. Il «mostro» che si sta guardando in faccia ha dei tratti famigliari e nel riappropriarsi della sua storia si sta facendo riaffiorare ad un tempo un segmento della memoria collettiva e di vicende che interrogano ciascuno di noi. Per il solo fatto che questa storia sia finalmente raccontata, e che a farlo sia proprio io, sua nipote, sembra dire Marzano, il cassetto dove la vicenda di mio nonno è stata a lungo nascosta non si potrà richiudere mai più. E, con lui, tante altre storie e cassetti.

Salentino, classe 1897, ufficiale decorato nella Grande Guerra, cresciuto nel mito della «vittoria mutilata» e nell’anticomunismo nazionalista dell’epoca, Arturo Marzano si era iscritto ai Fasci di combattimento, fondati da Mussolini in piazza San Sepolcro a Milano il 23 marzo 1919, e da cui sarebbe sorto il Partito nazionale fascista, solo due mesi più tardi, mentre tre anni dopo avrebbe preso parte alla Marcia su Roma. Divenuto magistrato in Puglia, nel 1924 fu tra i primi a far condannare dei giovani perché avevano cantato in pubblico «Bandiera rossa» e, alla fine degli anni Trenta, partecipò, accanto al prefetto locale, ai lavori della Commissione per il confino di Lecce, ricoprendo anche incarichi nel Pnf salentino.

Sospeso dal servizio alla fine del 1944 per decisione della Commissione di epurazione dell’Ordine giudiziario per la sua piena adesione al fascismo – la liberazione della Puglia era avvenuta nel settembre del 1943 -, sarà reintegrato nelle sue funzioni quattro anni più tardi, nel gennaio del 1949. Divenuto avvocato e attivo nella destra locale, sarà eletto deputato, tra il 1953 e il 1958, nelle fila del Partito Nazionale Monarchico. E sarà proprio nel corso di un comizio elettorale che nel maggio del 1958 verrà colpito da un ictus e passerà gli anni fino alla morte, avvenuta nel 1976, senza quasi riuscire a muoversi né a parlare.

Sullo sfondo della figura del nonno, Michela Marzano, compone anche il ritratto di una società, nel caso quella salentina dell’epoca, ma in questo simile per molti aspetti al resto del Paese, dove l’adesione al fascismo oltre ad essere spesso convinta era anche utilizzata per fare carriera, per entrare a far parte della élite locale, degli ambienti che contavano anche in base alle relazioni che i loro membri sapevano intrecciare con Roma e i vertici del Regime: a Lecce in particolare con il potentissimo Achille Starace, alla guida del Pnf dal 1931 al 1939, anch’egli pugliese.
In qualche modo è un mondo, quello che emerge frammento dopo frammento dalla ricerca di Michela Marzano, iniziata nelle cantine di casa e poi via negli archivi di Stato. Sul fondo, una consapevolezza dolorosa.

«Per quasi cinquant’anni mi sono convinta che i fascisti fossero altri, che io non avessi nulla da spartire con loro, e che la mia storia e le mie battaglie fossero la prova evidente della mia innocenza», scrive l’autrice che ha però sottolineato più volte come la «vergogna» del titolo non si situi tanto tra gli esiti della sua ricerca – «la vergogna per un nonno fascista fino all’ultimo» – quanto piuttosto tra le inquietudini interiori che l’hanno spinta ad intraprenderla. La «vergogna» di cui parla passa infatti «di generazione in generazione. La si succhia al seno della madre e la si respira nelle braccia del padre. Ce la si trasmette come un’eredità scomoda, con la quale prima o poi, qualcuno i conti dovrà pur farli. Anche se la verità storica rischia di sfuggirci. E, la maggior parte delle volte, nessuno saprà mai cos’è successo veramente».

CON ESTREMO CORAGGIO, attraverso il sentimento della vergogna, una «vergogna ontologica» nelle sue parole, Michela Marzano racconta di sé mentre, a partire dalla sua casa parigina sottoposta a tutte le limitazioni di questi due anni di pandemia, scopre passo dopo passo la storia di «nonno Arturo». I lunghi anni di analisi, il tentativo di suicidio, gli interrogativi e il dolore intorno alla prospettiva della maternità e, prima ancora, il definirsi della propria personalità nelle difficili relazioni con i propri genitori, un papà autoritario e una mamma, apparentemente spesso assente e comunque sempre molto fragile. Le cartoline d’epoca, il riaffiorare della memoria celata del giudice Marzano, notabile della Puglia fascista degli anni Trenta, si intrecciano con ricordi dolenti o stimolanti, sempre emozionanti, che costituiscono allo stesso tempo il contesto e il necessario percorso verso «la scoperta».

La storia che si va definendo nelle pagine di Stirpe e vergogna non è, e non potrebbe essere davvero «altro» rispetto all’autrice e ai suoi lettori. Ma il punto non è tracciare una linea di demarcazione. Per il solo fatto di essere ricondotta nell’alveo di una memoria, allo stesso tempo intima e collettiva, quella vicenda non cesserà più di interrogare ciascuno di noi e di far emergere ciò che in molti, e collettivamente il Paese, hanno evitato a lungo di voler vedere. Riappropriandosi finalmente, come scrive Michela Marzano, di «un patrimonio di memoria che mi aspettava. O almeno è quello che mi piace credere, visto che di tempo ce ne ho messo tanto prima di fare i conti con la storia della mia famiglia».