In una realtà come quella russa dove la propaganda di Stato ha occupato da tempo tutti gli spazi della comunicazione, anche un cronista affermato come Michail Ševelëv ha scelto di rivolgersi alla narrativa perché teme che il giornalismo abbia smesso di essere uno «strumento efficace» per favorire il cambiamento. Una riflessione emblematicamente sintetizzata nel dialogo tra i due protagonisti di Russo no, il primo romanzo di Ševelëv ad essere tradotto nel nostro Paese (e/o, pp. 138, euro 17, traduzione di Claudia Zonghetti, postfazione di Ljudmila Ulickaya), nel quale Vadik rivolge a Pavel, quest’ultimo firma affermata della stampa moscovita, un quesito fulminante: «Voglio capire perché tutte le tue parole hanno mancato il bersaglio».

I due si sono conosciuti durante la cosiddetta seconda guerra cecena, combattuta per tutto il primo decennio degli anni Duemila e che ha segnato profondamente il regime di Putin e la società russa, dopo che il conflitto del Caucaso era iniziato a metà degli anni Novanta durante la presidenza di Boris Eltsin. Inviato da un’importante testata di Mosca a seguire il conflitto, Pavel era riuscito a riportare a casa Vadim, prigioniero dei guerriglieri ceceni. Quindici anni più tardi, siamo nel 2015, è l’ex soldato che, dopo essere stato testimone degli abusi inflitti dai suoi stessi commilitoni alla popolazione civile della Cecenia, ha vissuto l’emarginazione sociale e la violenza della polizia in quella che è nel frattempo diventata la Russia dell’«era Putin», prende in ostaggio dei civili nei dintorni di Mosca e chiama l’amico di un tempo per negoziare con le autorità e recapitare la sua richiesta: che Putin in persona si scusi con il Paese per le guerre e la sofferenza che ha inflitto ai russi.

Un romanzo potente e essenziale, costruito in qualche modo come un thriller, con cui Michail Ševelëv, decano del giornalismo russo alla sua seconda prova narrativa, ha vinto nel 2021 il Premio Isaac Babel’, racconta le retrovie sociali della guerra nella società russa e riflette, con il tono disincantato ma vigile di Pavel, sul ruolo della propaganda putiniana, sul mondo dell’informazione in Russia e su come tutto ciò abbia definito in questi anni il rapporto tra i cittadini e il potere e contribuito a costruire la realtà sociale che conosciamo oggi.

Lo scrittore e giornalista Michail Ševelëv

La storia descritta induce i lettori ad interrogarsi su quanto le tragiche vicende della seconda guerra cecena (1999-2009), con il loro portato di violenza e barbarie, abbiano plasmato la Russia di Putin. Come sintetizzare il ruolo di quei fatti nella costruzione del presente del Paese?
La seconda guerra combattuta dalla Russia in Cecenia segnò il culmine del primo decennio del nuovo Paese, quello nato dal crollo dell’Urss, la Federazione Russa. Che sarebbe dovuto diventare un Paese migliore in cui vivere per i suoi cittadini e un vicino più sicuro per gli Stati confinanti. Però queste speranze non si sarebbero avverate a causa degli errori commessi nel frattempo. Il più grave fu già lo scoppio della prima guerra cecena (1994-1996) che pensata come una campagna veloce e vittoriosa, si trasformò in realtà in un’enorme tragedia. Coloro che avevano reso possibile tutto ciò temevano di doversene assumere la responsabilità, e questo ha reso in qualche modo inevitabile quello che è successo dopo: la seconda guerra cecena, la soppressione dei media indipendenti, il mettere a tacere la società civile, gli omicidi politici, gli arresti, la manomissione delle elezioni.

Vadim, un ex soldato che in Cecenia ha conosciuto la barbarie dei suoi commilitoni, organizza una presa di ostaggi chiedendo che Putin in persona si scusi di quella guerra come di quanto sta accadendo in Ucraina al momento, siamo nel 2015, all’indomani dell’inizio degli scontri in Donbass. Come un castello di carta, il regime può crollare se solo vengono pronunciate parole di verità?
Purtroppo, in realtà, le parole di verità sono state pronunciate, ma il regime non è mai crollato. Al contrario, si è invece rivelato molto più stabile e agile di quanto immaginassero i suoi avversari. Allo stesso modo i cittadini russi hanno mostrato di essere molto più vulnerabili di fronte alla propaganda del regime. Gli intellettuali del mio Paese devono ammettere questa triste realtà e la propria responsabilità per gli errori che sono stati commessi.

Già prima di essere sconvolta dalla guerra nel Caucaso, proprio la vita di Vadim è stata contrassegnata dall’abbandono, dalla povertà, da un ciclo infinito di soprusi e violenze subite spesso dalla autorità, a cominciare dalle forze dell’ordine. Sembra la descrizione di una parte della società sovietica, quella cresciuta lontano dalle grandi città o nelle sterminate periferie urbane e che appare impaurita, rabbiosa, priva di speranze…
Esattamente. È andata proprio così. Nella traiettoria di Vadim emergono tutti questi elementi. E non potrei definire meglio la diagnosi relativa alla società russa che emerge dalla sua domanda.

Come lei, anche il narratore del romanzo è un giornalista. Pavel Volodin appare però disilluso quanto alla possibilità che la Russia possa cambiare ed è consapevole del ruolo che proprio i mass media, e soprattutto l’informazione televisiva, giocano nella costruzione del consenso a Putin. Quanto pesa questo elemento nella società russa?
Per i regimi del tipo di quello che è al potere nella Russia di oggi la propaganda è decisamente essenziale. Ha un ruolo che supera persino quello della polizia segreta e della repressione. Ma, a ben guardare, proprio per lo stesso motivo, il consenso nei confronti di Putin è molto fragile perché costruito quasi esclusivamente dalla macchina della propaganda e sulle false narrazioni messe in campo da questo strumento del potere.

Il modo in cui Pavel descrive il mondo del giornalismo e delle tv russe fa pensare alle parole di Anna Politkovskaja che quasi vent’anni fa descriveva quell’ambiente come un circo fatto di marionette che ballano in base alla musica di Putin. Mentre chi cercava di fare onestamente il proprio lavoro era in pericolo. La sua esperienza di giornalista le fa confermare quelle analisi?
Trovo corretta l’analisi della mia amica Anna Politkovskaja, aggiungendo però un «ma». E questo «ma» è davvero importante. Infatti, nella Russia negli ultimi anni ho visto crescere anche un giornalismo, e giornalisti diversi. C’è una nuova generazione, che al momento ancora non ha voce, ma che sarà pronta a dare il proprio contributo quando sarà il momento.

«Russo no» non sembra voler offrire risposte, ma pone molte domande su come il suo Paese sia arrivato alla drammatica condizione attuale. In Russia c’è ancora, o c’è mai stato spazio e possibilità di ascolto per «i lanciatori d’allerta»?
Credo che quella russa non sia del tutto una realtà senza speranza. Mi spiego: nella sua forma attuale, lo Stato russo è una autentica vergogna. Ma i russi, intendo dire i 140 milioni di persone che popolano la Federazione, sono certamente in grado di costruire qualcosa di migliore, più sicuro, sano e prospero, per sé come per gli altri. Che si tratti della Russia odierna o di numerose nuove entità sorte dal suo territorio odierno.