Le implicazioni della riforma che ha introdotto la raccolta telematica delle firme per gli istituti di democrazia diretta (referendum e iniziativa legislativa popolare) sono numerose. Dopo aver affrontato l’inasprimento della torsione populista in atto nel sistema politico, vorrei soffermarmi su altri due profili problematici.

Il primo ha a che fare con la spoliticizzazione della partecipazione popolare alle decisioni che interessano la vita collettiva. Esercitare un diritto politico è diverso dallo svolgere una pratica amministrativa: le due cose non possono venire sovrapposte. Se lo Spid rappresenta certamente un’innovazione tecnologica preziosa in ambito amministrativo, favorendo la costruzione di un rapporto costruttivo tra i cittadini e la pubblica amministrazione, lo stesso non si può dire con riguardo all’ambito politico. Qui il rischio – lo ha scritto Vladimiro Zagrebelsky su «La Stampa» dello scorso 17 settembre – è di ridurre l’impegno politico all’espressione di un «mi piace».

È un rischio che Giovanni Sartori e Norberto Bobbio già avevano messo in luce negli anni Settanta del Novecento: il primo, prefigurando un futuro in cui «tornando a casa sedere ogni sera davanti a un video che pone i quesiti ai quali rispondiamo sì e no semplicemente premendo due tasti: dopodiché un elaboratore ci farebbe immediatamente sapere se un provvedimento è approvato o respinto» (1974); il secondo, immaginando l’«ipotesi per ora fantascientifica ogni cittadino possa trasmettere il proprio voto a un cervello elettronico standosene comodamente a casa e schiacciando un bottone» (1978). Tasti e bottoni: vale dire, nel linguaggio di oggi, «click».

Per entrambi, il punto critico è l’illusione che la somma di tante partecipazioni effettuate a titolo privato dal salotto di casa possa avere, come esito, la costruzione della politicità propria di ogni collettività umana che sia unita da un, seppur minimo, legame di solidarietà. La somma di tanti privati – spiegano sviluppando un’intuizione risalente a Carl Schmitt (1928) – produce solo un privato più grande: una maggioranza che si basa non sulla capacità di costruire consenso intorno alle proprie proposte, ma sulla mera forza del numero.

Una forma sottile di violenza che, riducendo la democrazia a matematica, produce, come effetto, lo schiacciamento delle minoranze.

Tutt’altra cosa è agire politicamente: vale a dire, uscire di casa e confrontarsi con gli altri, argomentando con convinzione le proprie posizioni, ma senza giungere al punto di negare l’eventualità di un compromesso. Per questo la democrazia digitale è solo apparentemente strumento di ampliamento della democrazia, mentre in realtà ne è la riduzione: perché favorisce l’affermazione di posizioni unilaterali e scoraggia la ricerca di punti di contatto.

Il secondo profilo problematico emerge dall’incapacità di guardare lontano che sempre più connota il nostro legislatore. L’apertura alla raccolta digitale delle firme è stata decisa in sede di commissione, come emendamento alla legge di conversione di un decreto-legge che è poi stata approvata dalle due Camere sotto il ricatto governativo della questione di fiducia.

Nessun approfondimento, nessuna reale discussione, nessun interrogativo su quello che si andava facendo. Lo dimostra la sorpresa con cui le forze politiche hanno accolto la travolgente raccolta di firme per la legalizzazione della cannabis e, in parte, per l’eutanasia.

Eppure, non dovrebbe essere un mistero che i sistemi costituzionali sono il frutto di un equilibrio tra elementi differenti, che si tengono gli uni con gli altri soppesandosi e contrappesandosi reciprocamente, come dicono gli inglesi. In Svizzera, per esempio, l’ampio uso dei referendum è bilanciato dalla forma di governo direttoriale.

Toccare un elemento, inevitabilmente produce conseguenze su altri, sicché occorre agire sempre con prudenza e attenzione (non a caso, l’art. 138 Cost. disciplina la revisione costituzionale anche aggravandone la durata temporale rispetto ai termini di approvazione di una legge ordinaria). Quando, nel 1993, la legge elettorale è stata trasformata da proporzionale in maggioritaria, le conseguenze forse più rilevanti si sono avute sulla forma di governo, attraverso il definitivo spostamento della centralità del sistema costituzionale dal legislativo all’esecutivo.

Il rischio, oggi, è quello di un ulteriore indebolimento del Parlamento e, più in generale, dell’esasperata esaltazione del principio maggioritario a discapito degli istituti di garanzia (per loro natura contromaggioritari): a partire dalla Corte costituzionale, che potrebbe ben presto trovarsi in grave imbarazzo dovendo dichiarare l’inammissibilità di quesiti referendari apertamente incostituzionali, ma forti di un’inusitata quantità di firme a loro sostegno.