Vincitore di Un Certain Regard con il suo primo film, Forza maggiore (2014), e della Palma d’oro con il secondo, The Square (2017), il fenomeno Ruben Östlund arriva a Cannes nella nuvola di compiaciuta superiorità che emanano i suoi film e che ben incarna il concetto di cinema d’autore di prestigio portato avanti da questo festival. Lars von Trier venticinque anni fa. Ma è il sarcasmo, non il dolore lancinante di Trier, l’emozione dominante di Östlund e del suo Triangle of Sadness, titolo che evoca un film di Apichatpong e che invece si riferisce alle rughe che si formano con gli anni e le preoccupazioni tra le due sopracciglia. Più Ryan Murphy che Buñuel, più serie tv che cinema, Triangle è diviso in tre capitoli, uniti dalla presenza di due modelli/influencers, Carl e Yaya, belli e plasticosi che più di così non si può – stanno insieme in nome di quella che un tempo era «convenienza» e oggi si chiama social media.

ANCHE SE LUI, che ha leggermente passato il suo prime, è deciso a farla innamorare sul serio. Grazie al loro status da stelle del web, i due vincono una crociera gratuita su una nave dei folli popolata di tutti i peggiori cliché dell’oligarchia del denaro. Da una ciurma in cui le minoranze non possono avere rapporti con i passeggeri, e molto implausibilmente da un capitano marxista (Woody Harrelson) perennemente ubriaco che diffonde Il Capitale via intercom. Se il tutto sembra un po’ ovvio è perché lo è. Come è ovvio il tono eccessivo, stridente, che Östlund dà alla sua satira. Una premessa del genere non può che naufragare. Infatti la nave va a fondo e nel terzo capitolo si passa direttamente a Survivor.
La tenue traccia di simpatia che Östlund aveva manifestato nei confronti del curatore d’arte protagonista di The Square (probabilmente dovuta anche alla sfumata interpretazione di Claes Bang), qui è cancellata del tutto – Triangle è un film che disprezza i suoi personaggi e, sembra ogni tanto, anche il suo pubblico.