«’Sta quattro facce gialle com’er sego portavano la morte e il me ne frego. Anche noi ce ne saressimo freegati se il governo come a lor ci avesse armati»… Così cantavano gli Arditi del Popolo, parodiando la Canzone del Piave, ricordando la rivolta di San Lorenzo e altri quartieri di Roma del 1921, dopo che i fascisti allo Scalo San Lorenzo avevano ucciso il ferroviere Guglielmo Farsetti. E concludevano: «Ma Roma sarà sempre bolscevica trionfa sempre sì: martello, falce e spiga».
Martello falce e spiga non hanno trionfato, ma questa canzone l’ho sentita cantare ancora mezzo secolo dopo gli eventi, in posti lontani fra loro come un’osteria di Zagarolo, nel basso Lazio, e una festa dell’Unità ad Arrone, in provincia di Terni. Segno che quella prima resistenza antifascista a Roma è rimasta per almeno un paio di generazioni al centro della coscienza antifascista di un bel pezzo di Italia.

PER PRENDERSI ROMA i fascisti dovevano passare per San Lorenzo -, per la via Tiburtina o dallo scalo ferroviario. Per tre volte ci hanno provato, e per tre volte San Lorenzo ha reagito. Assalto a San Lorenzo. La prima strage del fascismo al potere (Donzelli, pp. 112, euro 16), di Gabriele Polo, racconta questa storia, mette in ordine gli eventi, ritrova i nomi delle vittime e dei protagonisti di una vicenda relativamente poco conosciuta. Gabriele Polo è una firma che i lettori del manifesto conoscono bene. Racconta con la precisione dello storico, la verve del giornalista, la passione del militante, producendo un testo appassionante sia per gli eventi raccontati sia per la voce che li racconta: un presente storico che non è solo un procedimento narrativo ma anche un modo di ricordarci che quel passato non è ancora né morto né veramente passato.
Il libro parte dalla fine: «È il tardo pomeriggio del 30 ottobre 1922, quando – mentre Benito Mussolini forma il suo primo governo e le ultime colonne di squadristi entrano a Roma – un centinaio di fascisti armati fanno irruzione nel quartiere di San Lorenzo e aprono il fuoco contro passanti e abitanti. È un attacco del tutto gratuito, privo di una logica politica se non quella di punire un rione in cui il fascismo non era mai riuscito a mettere piede prima di allora». I morti nel quartiere saranno tredici. Calpestare il quartiere anarchico e proletario che li aveva sempre respinti diventa per i fascisti una necessità simbolica più ancora che militare: piegare San Lorenzo significa sottomettere Roma, e conquistare Roma significa dominare l’Italia.
A prendersi San Lorenzo i fascisti ci avevano provato già il 15 maggio 1921: una spedizione squadrista, rapidamente respinta dagli abitanti. Tornano a novembre, per celebrare col primo congresso romano la fondazione del Partito Nazionale Fascista; il 9 novembre uccidono Guglielmo Farsetti. Stavolta è la città intera che risponde. «Sparsa la voce per la capitale», racconta la canzone, «compatti proclamò: Sciopero generale». «È l’inizio di cinque giorni di sciopero generale e di vere e proprie battaglie. Roma diventa il teatro di uno scontro armato di un’intensità mai vista prima».

INSORGONO TRIONFALE, Valle Aurelia, Testaccio, arrivano soccorsi di Arditi del Popolo da Civitavecchia e da Terni, le due realtà proletarie più vicine… «alla fine saranno altri cinque i morti, tutti antifascisti. Che non hanno le armi degli avversari («se il governo come a lor ci avesse armati») o della guardia regia, ma che nei quartieri popolari giocano in casa, controllano il territorio e resistono». Poi il 24 maggio, quando il corteo fascista che accompagna la sepoltura al cimitero del Verano dell’icona nazionalista Enrico Toti pretende di attraversare il quartiere e si scontra con un «moto di popolo» dei sanlorenzini, a cui seguì uno spietato rastrellamento della Guardia Regia. Muoiono un fascista e due abitanti del quartiere.
Di tutto questo, scrive Gabriele Polo, resta nel quartiere «un ricordo confuso». Proprio da qui vorrei partire per fare un ragionamento in più. Memoria «con-fusa» non significa necessariamente oblio o errore, ma forse anche un altro tipo di memoria, la differenza e la complementarità di storia e memoria. La storia distingue e delimita gli eventi, e il libro di Gabriele Polo documenta e identifica tre episodi separati e puntuali; la memoria, letteralmente li (con)fonde in una durata. Prendiamo il racconto che mi fece, ancora a fine millennio, Orfeo Mucci, artigiano comunista, commissario politico di Bandiera Rossa, cresciuto a San Lorenzo, dove lo ricorda una targa affissa dai compagni della nuova sinistra.
«Quando hanno portato Enrico Toti al Verano, sulla piazza Tiburtina hanno fatto la grande commemorazione. Allora un compagno nostro che abitava vicino a me, ha tirato fòri la pistola e ha ammazzato Franco Baldini – ve ricordate? Allora i fascisti – ‘ah, mo’ venimo su, spianamo San Lorenzo.’ Cencio Baldazzi manda a chiama’ i fornaciari a Vall’Aurelia, che erano tutti Arditi del popolo. So’ venuti su – stavano riparando , c’erano i serci; allora io alla testa dei ragazzini a fa’ le barricate coi sampietrini, portarli su in terrazza, nelle terrazze di tutta la zona, perché da sopra questi gli tiravano i sampietrini. Insomma, la prima barricata l’ho fatta a undici anni. I fascisti hanno cominciato a spara’, non s’è mai saputo quanti morti e quanti feriti ce so’ stati».

QUESTO RACCONTO letteralmente con-fonde due, forse tre momenti distinti: gli scontri per Enrico Toti e lo sciopero generale del 1921 dopo la morte di Guglielmo Farsetti. Su entrambi gli episodi, la memoria è precisa: anche Polo ricorda i mattoni e i sassi tirati dai tetti il giorno di Enrico Toti, e tutti e due ricordano la donna che spara dalla finestra di casa ai fascisti col fucile da caccia. E fu effettivamente “Cencio” (Vincenzo Baldazzi), con gli Arditi del Popolo, a chiamare alla lotta i quartieri popolari – ma questo fu un anno prima. Ma Orfeo Mucci racconta questi due momenti distinti come se fossero un momento solo: forse perché, in un certo senso, lo sono.
In tutte le mie esperienze – che si tratti dei minatori del Kentucky negli anni ’30 o degli operai ternani a cavallo degli anni ’50 – ho visto che la storiografia identifica eventi, battaglie, e le persone raccontano una durata, un tempo di guerra. Quattro battaglie durate un giorno si confondono in una battaglia sola durata tre anni.
Il conflitto sociale diventa visibile nei momenti di ribellione aperta. Ma quello che lo rende possibile è la sotterranea continuità di un antagonismo coltivato negli interstizi fra una battaglia e l’altra, in spazi e tempi, gesti minuti e invisibili, la guerra quotidiana di trincea che connette le rivolte e le rende possibili. San Lorenzo rifiuta il fascismo non solo quando è aggredito apertamente, ma ogni giorno, sia in quegli anni cruciali che nei decenni che seguiranno.

Come sappiamo (penso a Lidia Piccioni, San Lorenzo. Un quartiere romano durante il fascismo), San Lorenzo non si è mai piegata del tutto, neanche nei venti anni del regime. Altre memorie nel frattempo si sono sovrapposte: i vent’anni di dittatura, il terribile bombardamento del 19 luglio 1943, la nuova sinistra e i movimenti degli anni ’70. San Lorenzo è orgogliosa della sua storia, e il libro di Gabriele Polo gli dà motivo ancora per esserlo. E ci ricorda che al fascismo si può resistere, qualche volta vincere, e – come San Lorenzo in quei lunghi vent’anni – non lasciarsi convincere. Il 25 aprile, a Milano e in tutta Italia, proveremo a ribadirlo.