Cittadino di tre nazioni (la Francia, dove nacque nel 1903, la Spagna in cui crebbe e studiò, il Messico che lo accolse fino alla morte avvenuta nel 1972), socialista militante ed eterno esiliato, agnostico che stentava a riconoscersi come ebreo, grande narratore, poeta, giornalista, drammaturgo, saggista, critico e sceneggiatore: Max Aub è stato tutto questo, e non c’è da stupirsi che occupi un posto di rilievo nella letteratura spagnola del Novecento, grazie a un’opera piena di sfaccettature e attraversata, oltre che dal costante desiderio di sperimentare, dalla tensione tra la materia del racconto e la ricerca della forma più adeguata.

Benché le traduzioni non siano mancate, buona parte della sua vasta produzione è inedita nella nostra lingua, tanto che solo Delitti esemplari (ottantasette ironici microracconti su delitti surreali), più volte ristampato da Sellerio, è davvero familiare ai lettori italiani. Ai pochi titoli aubiani ancora reperibili si aggiunge adesso per la prima volta Il manoscritto del corvo Storia di Jacobo (pp. 133, € 12,00), curato per ETS da Luisa Selvaggini, autrice dell’ottima prefazione e delle note conclusive, ma soprattutto traduttrice attenta di una brillante satira che, oltre a parodiare il linguaggio scientifico, è ricca di frasi idiomatiche e giochi di parole.

Il testo, dalla struttura frammentata in capitoli brevi e a volte brevissimi, va senz’altro collocato tra i numerosi apocrifi prodotti da Aub, «falsario» eccezionalmente creativo e meticoloso, ma soprattutto capace di combinare l’intenzione ludica con l’ansia di giustizia e l’etica ferma e coerente che connotano i suoi scritti e la sua vita: nessuno dei suoi «falsi» è un gioco fine a sé stesso, e tutti sono orientati da un pensiero critico di tagliente lucidità.
A differenza di Jusep Torres Campalans, monografia su un immaginario pittore catalano che nel 1958 convinse critici e lettori della sua esistenza, e delle magnifiche Antología traducida, del 1963, e Imposible Sinaí (raccolta di lettere e poesie attribuite a caduti arabi e israeliani nella guerra dei Sei Giorni), Il manoscritto del corvo rinuncia all’inganno, reso impossibile dall’identità del narratore. È infatti un corvo di nome Jacobo a osservare e descrivere l’esistenza degli internati nel campo di Vernet, nella Francia sud occidentale – dove lo scrittore fu rinchiuso nel 1940, in quanto «pericoloso rivoluzionario», prima di essere trasferito in quello di Djelfa, nel deserto algerino –, per elaborare un trattato da proporre all’Accademia Corvina.

Anche nel lungo racconto «Gennaio senza nome» (Nutrimenti, 2017) Aub aveva fatto ricorso a un narratore non umano, un albero che assiste attonito alla retirada dei repubblicani spagnoli dopo la caduta di Barcellona. Il suo tono drammaticamente sommesso, però, è ben diverso da quello spassionato e «scientifico» di Jacobo, che esclude ogni cedimento al patetismo, all’autocommiserazione o alla retorica, sottraendo il testo alle trappole della pura testimonianza e accrescendo in questo modo il vigore della denuncia. Sono lo straniamento e l’ilarità suscitati dalla voce del corvo, che raccoglie materiali, fa ipotesi e cita le dotte opinioni di altri corvi scienziati, a consentire la presa di distanza necessaria per trasferire nel territorio della finzione una realtà dolorosa e vissuta dall’autore in prima persona, trasformandola in letteratura.

Per Jacobo, Vernet riassume ed esemplifica l’assurdo comportamento della specie umana (paragonabile, sostiene, soltanto ai lombrichi, e incapace di vivere in armonia con sé stessa e col mondo), soggetta a norme insensate che la rendono schiava di un sistema burocratico basato su infiniti documenti e le impongono il concetto di frontiera, qualcosa che non esiste e che gli uomini difendono come se fosse reale, uccidendosi a vicenda in suo nome.
Pur tra conclusioni improbabili e interpretazioni paradossali (Vernet, per esempio, viene considerato da Jacobo un luogo di istruzione dove si forgiano con durezza «i migliori»), tutto ciò che il narratore riferisce è reale, a cominciare dal campo, frutto delle misure repressive del governo di Edouard Daladier, che anticiparono quelle del collaborazionismo di Vichy. E reali sono i prigionieri stipati là dentro, antifascisti, rifugiati, esuli, ex combattenti delle brigate internazionali (insomma gli stranieri, i profughi, gli altri, come nel nostro presente), come reali sono il poco cibo, le temperature estreme, il lavoro coatto, i maltrattamenti e le torture. Perfino Jacobo è autentico, perché un corvo addomesticato si aggirava davvero tra le baracche, come testimonia un altro scrittore internato, Arthur Köstler, nel suo «Schiuma della terra», e come lo stesso autore suggerisce nella dedica «a coloro che conobbero di persona Jacobo nel campo del Vernet, e non sono pochi».

Il libro, del resto, nasce dai taccuini di Aub che durante la prigionia non smise mai di praticare la scrittura come forma di resistenza e, una volta stabilitosi in Messico, trasformò gli appunti sull’internamento nel Manoscritto, apparso nel 1950 in «Sala de espera», la rivista «privata» in cui riuniva i suoi scritti ancora senza editore, e inserito cinque anni dopo nella raccolta Cuentos ciertos.

Come in tutti i suoi apocrifi, anche qui l’autore si serve di minuziosi paratesti: frontespizio, prologo, note, una tabella di corrispondenza tra i segni della lingua corvina e il castigliano e una sorta di indice biografico dei prigionieri (alcuni dei quali compaiono come personaggi in altre sue opere «concentrazionarie»), il tutto affidato a due figure fittizie, il curatore J.R. Bululú e il traduttore Aben Máaximo Albarrón. Un tempo prigioniero a Vernet, Bululú spiega nel prologo come si è imbattuto nel manoscritto e inaugura le allusioni con cui si fa appello a un lettore colto e complice: non solo si chiamava bululú l’attore che durante il siglo de oro recitava tutte le parti in commedia (come Aub, nascosto dietro maschere diverse), ma il termine contiene anche la parola bulo, ovvero «falsa notizia». Il classico topos del testo casualmente ritrovato e tradotto da una lingua arcana rimanda poi al Don Chisciotte, in cui Cervantes finge di recuperare un manoscritto in arabo.

Proseguendo nell’intreccio sapiente tra realtà e finzione, il curatore dedica infine un ringraziamento a monsieur Roy, ossia Henry Roy, ministro dell’Interno e membro del governo socialista che aveva riservato un trattamento inumano ai rifugiati spagnoli. Jacobo esprime inoltre un giudizio derisorio su La Fontaine, autore del celebre Il corvo e la volpe, citato con disprezzo come esempio di stupidità e crassa ignoranza.

Ed è a questo punto che ci rendiamo conto di come il Manoscritto sovverta e ribalti i codici della favolistica, in cui gli animali sono altrettante allegorie di vizi e virtù umane; il corvo, infatti, studia il microcosmo del campo per ammonire i suoi simili a non commettere gli stessi errori di creature tanto primitive e irrazionali: uno scambio di ruoli che trasforma definitivamente il Manoscritto in un apologo amarissimo ed esilarante.