Anche per l’arcipelago nipponico, come per molte zone dell’Occidente, il 1968 rappresenta un anno che simbolicamente racchiude molte delle istanze e delle problematiche sviluppate nei sessanta. Allo stesso tempo però, l’annata è anche un’apertura incondizionata verso modi alternativi ed altri di intendere le arti e il loro intreccio con politica e movimenti sociali. Fra rivolte studentesche, in verità molte avvennero anche nel 1969, e le proteste dei contadini contro l’esproprio delle terre per la costruzione dell’aeroporto di Narita, solo per citare i due casi più famosi, la fine del decennio coagulò infatti anche un senso di rivolta delle e nelle forme espressive la cui onda lunga si estende ed arriva fino all’oggi.

Le arti visive soprattutto furono un campo in cui le forme stabilite e storicamente solidificatesi nei decenni precedenti cominciarono a sciogliersi per lasciare spazio a qualcosa di diverso. Il cinema è forse l’esempio principe, con i nuovi autori, Oshima, Yoshida, Imamura e Masumura, che da un decennio almeno provavano ad aprire le possibilità infinite dell’arte filmica. Strettamente legato al cinema ed a questo contiguo, si sviluppò un nuovo modo di intendere la fotografia.

Il picco che meglio di tutti rappresenta queste nuove tendenze è rappresentato dalla rivista fotografica Provoke, fondata nel 1968 ed uscita in tre numeri nel corso di soli due anni. Sottotitolata Materiali provocativi per il pensiero, fu una pubblicazione a numero molto ridotto, solamente 1000 copie, lanciata da un gruppo di critici e fotografici giapponesi, che vollero con essa distaccare l’arte fotografica dalla schiavitù delle parole. Non solo una rivista dove pubblicare fotografie ma anche dove mettere in discussione e ridefinire, attraverso critica, poesia e spunti filosofici, l’atto del fotografare stesso. Fra gli artisti che parteciparono al progetto, ci furono anche nomi che sarebbero diventati nei decenni successivi dei luminari dell’arte fotografica, non solo in Giappone, quali Daido Moriyama o Nobuyoshi Araki.
Una delle tematiche principali discusse e rappresentate sulla rivista fu l’allontanamento della fotografia dalle sue origini come semplice documento di eventi, per spingersi in territori dove potesse diventare mezzo di espressione delle nuove soggettività che al tempo si andavano creando. Paradossalmente proprio grazie a queste premesse filosofiche profondamente legate all’ espressione pura, la fotografia riuscì a legarsi alle lotte ed ai conflitti sociali che destabilizzarono il Sol Levante non solo nel 1968, ma che sarebbero continuati per tutta la prima metà del decennio successivo.

Una delle caratteristiche espressive che viene ricordata ancora oggi come un marchio di fabbrica del gruppo, anche se la tecnica era già stata impiegata in precedenza, fu il cosiddetto are-bure-boke. Uno stile che privilegiava il fuori fuoco in immagini in bianco e nero sgranate e mosse, fu questo l’ideale approccio estetico per catturare le rivolte artistiche e sociali per le strade giapponesi, ma anche per reintrodurre il caos della vita fluida, imperfetta e debordante nel discorso artistico dell’arcipelago. Viste oggi queste immagini mantengono intatto tutto il loro potere sovversivo, anche perché lo scarto storico fra il nostro presente ed il presente del passato rappresentato in queste foto arriva come un pugno nello stomaco. Non solo sono dei momenti catturati su pellicola in cui si colgono le infinite possibilità di un presente non ancora deciso e solidificato, ma inserite nella nostra contemporaneità permeata da immagini digitali pulite e precise, rivelano una possibilità sempre attuale di artistica espressione.

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