Nel IX capitolo della Cosmographiae Introductio del 1507, il geografo e cartografo tedesco Martin Waldseemüller e il poeta grecista Matthias Ringmann si interrogavano sulla attribuzione, per la prima volta, del toponimo «Amerige – cioè terra di Americo o America» – alla parte meridionale del continente, dicendosi che giustamente il nome veniva da un uomo, peraltro di acuto ingegno, visto che sia l’Europa sia l’Asia «hanno ricevuto in sorte il loro nome da donne».
Quel nome, secondo alcuni strappato più a Colombo che alla sorte, riscosse un inarrestabile successo, anche perché il pacchetto editoriale includeva un globo da incollare e la traduzione al latino della Lettera al Soderini, a prova dei quattro (reali o presunti, comunque celebri) viaggi compiuti da Amerigo Vespucci nel nuovo mondo.

I nomi, tuttavia, trascinano con sé – nota Martin Caparrós nel suo Ñamérica (traduzione di Sara Cavarero, Einaudi, pp. 728, euro 25,00) «complicate peculiarità, e un certo numero di errori»; se, per esempio, scegliessimo Ispanoamerica staremmo dando alla Spagna «uno spazio che ormai non occupa più». D’altronde, questa parte di America cominciò a chiamarsi Latina dalla lingua della cristianità, che stabiliva chi avesse accesso all’istruzione e chi no, insomma chi detenesse il potere: «Indios, neri, meticci e mulatti scomparsi al solo colpo di una parola».

Oggi – scrive Caparrós – America Latina «è diventato un nome potente», che riguarda oltre venti milioni di chilometri quadrati, vale a dire un settimo delle terre emerse, abitate da 640 milioni di persone («una ogni dodici abitanti del pianeta») dei quali 420 parlano spagnolo. La proposta dello storico argentino è coniare un nuovo nome a partire dalla lettera ñ: la «stravagante», la ventiduesima consonante – «grido e bandiera», «stendardo della lingua castigliana» – che manca nelle altre lingue romanze.

La regione che Caparrós ribattezza come Ñamérica lascia fuori il gran Brasile. Al di là dei luoghi comuni e di altre nostalgie, l’autore argentino decide di osservare «più l’ordinario e meno lo straordinario» e di «spiare le vite, i rapporti, le idee», addentrandosi nel continente degli ñamericani, che contano il 15 per cento degli emigrati del mondo, il doppio della media mondiale. Traccia dunque una mappa – storica, politica, sociale ma anche economica – di questo continente pluriculturale, che rimane unito al di là delle frontiere. Di fatto, la storia di Ñamérica come corpo unico è più lunga di quella dell’attuale divisione in paesi: per tre secoli questa regione è stata parte di uno stesso Stato, religione e cultura, fino alle indipendenze che militavano a favore delle differenze e contro l’unico processo unificatore: «Sono duecento anni che cerchiamo, molto patriotticamente, di non far esistere questa unità latinoamericana, ma poi deploriamo che non esista».

Argentino di nascita e spagnolo d’adozione, Martin Caparrós ha scritto anche romanzi e saggi, ma soprattutto si è dedicato a un giornalismo letterario volutamente soggettivo e sempre sintonizzato sul presente. In Ñamérica ha riunito diverse crónicas pubblicate per la maggioranza su «El País Semanal» dando vita a un ibrido che va dal libro di viaggio al saggio, organizzato intorno alla città nella sua declinazione più plurale (da Città del Messico a Buenos Aires).
Degno erede di Le vene aperte dell’America Latina di Eduardo Galeano, il libro di Caparros non tradisce l’Aleph di Jorge Luis Borges «dove si trovano, senza confondersi, tutti i luoghi della terra, visti da tutti gli angoli» e restituisce una percezione della terra ñamericana come la più disuguale al mondo, in cui le disparità non sono conseguenza solo del denaro, ma di un «insieme di privilegi» che generano una disuguaglianza che «si impara», «si pratica» e «si nutre» ormai da secoli.