Sit-in è la forma di protesta basata sull’occupazione di un’area allo scopo di attirare l’attenzione sulle istanze di coloro i quali la attuano. Ma Sitin è anche la parola scritta col neon che, lasciata come in sospeso – in quanto affonda e al contempo non affonda nella cera posta al di sotto di essa, entro una rete in una struttura in ferro –, costituisce e dà il titolo a una nota opera di Mario Merz (Milano 1925 – Torino 2003), artista incluso da Germano Celant nel movimento dell’Arte povera sviluppatosi in Italia nella seconda metà degli anni sessanta.
Realizzata nel 1968, Sitin nacque dopo aver «visto, in fotografie e nella realtà, dei sit-in o della gente che si sedeva per terra in uno spazio», ricorda l’artista: «Ho pensato di riproporlo come idea, infatti questa strutturina di ferro con scritto nella cera ‘sit-in’ aveva un significato se stava al centro di uno spazio…». Esposta a terra, al centro della scena, Sitin è stata pertanto scelta come fulcro e titolo della mostra che ora la accoglie, visitabile alla Fondazione Merz di Torino fino al 16 settembre.
L’esposizione, rinviando tramite il titolo di quell’opera alla forma di protesta molto diffusa durante la Contestazione del ’68, fornisce a cinquant’anni di distanza uno spunto di riflessione sui moti sessantottini che innescarono inusitati fermenti creativi e radicali cambiamenti capaci di dar luogo a «una lunghissima domenica» durante la quale, scrive Merz, «stiamo svestendo la cultura per vedere come essa è fatta».
Queste e altre sue parole leggibili sulle pareti della Fondazione, nonché nei disegni, note, appunti, libri, inclusi in mostra assieme ad alcune fotografie d’archivio, sono importanti quasi quanto le nove opere esposte al fine di delineare una «biografia come sostentamento», ovvero uno «spazio e libertà in progressione naturale» dove, sulla scia dell’insegnamento di Marcuse, è l’immaginazione a essere investita del massimo potere.
Le nove opere esposte sono state realizzate tra il 1966 e il 1973, ed esemplificano tre differenti tipologie di lavori sviluppati da Merz in quegli anni.
Lancia (1966), Salamino (1969) e Bicchiere trapassato (1967) rinviano alla sua scelta di utilizzare il neon «come luce o sbarra di luce o flusso di luce che attraversa gli oggetti e li distrugge come idea di oggetto». Object trouvés, materiali organici o tecnico-industriali divengono così veicoli di energie da riposizionare nello spazio per innescarne il cambiamento.
È infatti lo spazio uno dei temi centrali della produzione di Merz, da lui occupato attraverso le strutture primarie e archetipiche dell’igloo («forma organica ideale , nel contempo mondo e piccola casa») e del tavolo («pezzo di terra sollevata, come una roccia nel paesaggio»).
In mostra, l’Igloo di Giap (1968) ci invita a girare attorno alla sua struttura rivestita in creta per leggere la frase al neon pronunciata dal generale vietnamita Vo Nguyen Giap: «Se il nemico si concentra, perde terreno, se si disperde, perde forza». Il nostro moto circolare attorno all’igloo ci induce a una più lenta lettura di tale invettiva e dunque alla sua contemplazione, alla stregua di quanto ricorda di aver fatto Merz nel 1968: «abbiamo contemplato questa dinamica idea irreversibile, e l’abbiamo accesa (al neon!) perché nella nostra lunga domenica non ci scappasse di mente».
Il secondo igloo esposto, Is space bent or straight (1973), composto da ferro e vetri, rinvia a una domanda sullo spazio assai ricorrente negli scritti dell’artista. Accoglie inoltre al centro una macchina da scrivere in ricordo del primo suo allestimento a Berlino, nel 1973, in occasione del quale Mario Merz ed Emilio Prini scrissero a macchina alcune parole seduti al suo interno.
Dalla geometrica calotta degli igloo alla serie numerica individuata nel 1202 dal matematico pisano Leonardo Fibonacci, in cui ogni cifra è il risultato delle due precedenti (0,1,1,2,3,5,8…), il passo è breve. Emblema della dinamica relativa ai processi di crescita del mondo organico che, partendo dal punto zero, si espande all’infinito con un andamento spiralico, la sequenza di Fibonacci è il simbolo della poetica di Merz che già dai suoi inizi aveva scelto la spirale e le forme organiche a essa connesse (chiocciole, rami, foglie, pigne) quali soggetti iconografici d’affezione.
In mostra, l’installazione A real sum is a sum of people (1972) è tra le prime basate sulla progressione di Fibonacci: alcune fotografie raffigurano l’interno di uno stesso pub di Londra che, da uno scatto all’altro, vede aumentare i suoi «clienti» secondo la crescita stabilita dalla sequenza del matematico pisano, sottolineata dai numeri al neon associati da Merz a ogni stampa fotografica.
A costituirne un pendant è l’installazione It is possible to have a space with tables for 88 people as it is possible to have a space with tables for no one (1973), composta da tavoli di grandezze differenti, anch’esse stabilite in base alla sequenza di Fibonacci che, indicata dai numeri al neon associati ai tavoli, sottende una concezione di spazio quale luogo da esperire sempre più collettivamente. Nel 1973 infatti, l’installazione dette luogo a una performance presso l’Akademie der Künste di Berlino, durante la quale il pubblico fu invitato a sedersi intorno ai tavoli per consumare un bicchiere di latte e un uovo sodo.
Terminata la visita alla mostra viene quasi da ipotizzare che in realtà, più che l’opera Sitin, sia la scritta al neon sospesa a una parete dello spazio, Sciopero generale azione politica relativa proclamata relativamente all’arte (1972), a essere la definizione più puntuale dell’esposizione, nonché dell’intera ricerca di Merz che da sempre ha fatto della commistione tra arte, storia e politica uno strumento per attuare il diritto e l’esercizio collettivo dello «sciopero», ossia di una perenne contestazione contro l’atrofizzante Sistema socio-politico e culturale coevo, al fine di ottenere un radicale cambiamento del mondo e della nostra esistenza.