Marianna Filandri, sociologa all’università di Torino e autrice di «Lavorare non basta» (Laterza), l’Istat dice che l’occupazione è cresciuta in Italia. Di quale occupazione stiamo parlando?
Un dato molto positivo perché abbiamo raggiunto un livello di occupazione record, mai registrato prima in termini assoluti: quasi 24 milioni di occupati. Bisogna però considerare che il tasso di occupazione rimane molto basso e c’è un’alta diffusione del lavoro povero. Il lavoro inoltre spesso anche non sicuro, sia in termini contrattuali, sia in termini di incolumità fisica. Lo dimostrano i tantissimi incidenti e le morti sul lavoro.

La povertà è cresciuta a livelli mai toccati da 10 anni. Questo significa che uno o più lavori non bastano per fare uscire dalla povertà?
Sì. Il lavoro povero è il risultato di diversi fattori: chi lavora è spesso l’unico attivo nel nucleo familiare, può avere un basso salario, contratti a termine o un part-time involontario. Il reddito che guadagna non è sufficiente per soddisfare i bisogni della famiglia. Parliamo soprattutto di occupazioni poco qualificate, spesso assunti attraverso gli appalti.

L’aumento del lavoro povero è la conseguenza di una politica generale che li ha tenuti bassi dall’inizio degli anni Novanta?
Certamente, c’è una responsabilità della politica. Siamo uno dei pochi paesi in Europa che ha visto diminuire il valore reale dei salari. I salari sono bassi per molte ragioni. Una di queste è legata alla diffusione del lavoro precario, risultato della deregolamentazione del mercato del lavoro. Si resta precari per molti anni e non ci sono avanzamenti di carriera.

Save the children ha ribadito che in Italia i minori in povertà assoluta sono circa un milione e 300mila. Centomila ragazzi tra i 15 e i 16 anni vivono in condizioni di grave deprivazione materiale. Cosa può significare questo in termini di aspettative di vita e di lavoro?
Mette in discussione la possibilità di raggiungere obiettivi di realizzazione individuale funzionali allo sviluppo della società. Questi giovani avranno molte difficoltà a raggiungere livelli di istruzione alti e a inserirsi in occupazioni retribuite e stabili. Il bisogno economico li spinge a inserirsi in fretta nel mercato del lavoro dove rischiano di cadere nella trappola della povertà.

Come spiega la soddisfazione espressa ieri da governo e maggioranza per i dati Istat?
Non è la prima volta che accade di fronte a una variazione dei dati dell’occupazione mensile o annuale. Tuttavia, i fenomeni sociali ed economici vanno analizzati nel lungo periodo. È positivo che un giovane trovi lavoro, ma non vale per tutti i tipi di occupazione. Chi accetta la prima occasione, spesso per dare un segnale di disponibilità rischia di ritrovarsi intrappolato in cattivi lavori: intermittenti, poco qualificati e con bassi salari. Il danno è doppio perché le imprese tendono a non offrire posizioni prestigiose a chi ha esperienza in occupazioni poco qualificate e a termine. Chi può permettersi di aspettare più a lungo a iniziare a lavorare, può trovare invece un lavoro più qualificato, con prospettive di carriera migliori.

Nel suo libro parla di una «critica della centralità del lavoro». Cosa intende?
Nella nostra società il lavoro e l’operosità hanno acquisito un valore morale. Lavorare duramente è visto come segno di integrità. Si pensa alle persone ricche come onorevoli che hanno lavorato tanto e la loro ricchezza è meritata. Questo dogma del lavoro è funzionale al capitalismo ma non al benessere dei singoli e a quello della collettività. Su questo sono emblematici i dati su turn-over, infortuni, burn-out e malattie. Il lavoro non può diventare un idolo al quale sacrificare la vita. Così nascono fenomeni come le grandi dimissioni e gli abbandoni silenziosi. Diamo per scontato la dedizione del lavoratore e se questa viene meno, la analizziamo come un problema. Non dovrebbe essere così.

Se lavorare non basta, per vivere cosa serve?
Serve garantire condizioni dignitose di lavoro e un Welfare che consenta a tutti gli occupati di non vivere in povertà. Il lavoro è fondamentale perché non soddisfa solo bisogni economici, ma anche il desiderio di identità e autorealizzazione. Bene che ci sia più occupazione, ma ben pagata e sicura.