Maria, è Maria Schneider, la sua storia la racconta in un libro (Tu t’appelais pas Maria Schneider, Grasset) dalla cugina, Vanessa Schneider, molto più giovane di lei, sullo schermo la porta Jessica Palud (era stata negli Orizzonti veneziani con Revenir, 2019, film di problematiche famigliari senza particolari guizzi). In questa triangolazione a mancare alla fine però è proprio Maria Schneider, e non solo perché è morta (nel 2011), come del resto gli altri convocati in questa storia, cioè Bernardo Bertolucci e Marlon Brando, ma perché il suo vissuto diventa la superficie su cui riflettere qualcos’altro. Che sostanzialmente da una parte comprende le istanze attuali del Me Too, dall’altra una «sotterranea» (ma nemmeno troppo) rivincita (?) nei confronti di Bertolucci restituito mediocre non solo umanamente ma soprattutto come regista (è interpretato da Giuseppe Maggio) con una goffaggine per affossare il resto.

La prima domanda che viene da fare a Palud è perché ha voluto «rifare» pezzi di Ultimo tango a Parigi. Non «la» scena da cui discende il resto, la violenza sessuale nella sodomia – che già non ce ne era bisogno – ma altri passaggi, in cui Brando (Matt Dillon) si aggira inseguito da Schneider (affidata alla brava attrice Anamaria Vartolomei che avevamo visto in L’evenement Leone d’oro a Venezia di Audrey Diwan), in un reenactment farsesco che annulla qualsiasi pretesa di verità, o se vogliamo più modestamente di riflessione su un’epoca e su certi processi all’interno dello spettacolo e della società intera rispetto ai quali oggi si è presa la parola.

A QUEL PUNTO invece si è già in imbarazzo: è Maria che le interessa o è qualcos’altro? Del resto sin dalle prime sequenze il personaggio/persona è chiuso senza scampo nel teorema della vittima. Il padre Daniel Gélin (Yvan Attal) attore del cinema di papà non l’ha mai riconosciuta, la madre è una psicotica animata da furore contro ogni maschio che la sbatte fuori casa quando sa che vede il padre. Lo zio l’accoglie e un «taglio» a fondo nero – di cui Palud fa un uso fastidioso e senza significato – ci fa sospettare il peggio, così come poco dopo con l’agente di attori e attrici da cui l’ha mandata il padre, a alludere a una modalità ricattatoria del sesso – «ti prendo nell’agenzia se fai sesso con me» che è reale ma non si comprende allora perché sfumarla.
Bertolucci artista è un corollario di banalità, e chiunque lo abbia mai ascoltato lasciando pure da parte l’uomo o l’Autore, sa che la sua parola sul cinema, sul fare, sul «leggerlo» era sempre ricca e piena di intuizioni e passione. Il «remake» della scena sposa molte distorsioni – il fatto che non fosse nella sceneggiatura per esempio, mostrando tutto il set allibito – e allora: perché non dare voce a Storaro che era presente e magari qualcosa avrà da dire essendo uno dei pochi in vita?

DA LÌ LA VITA di Maria è finita. Lo «scandalo» del film ne fa un’icona ma anche la travolge – Bertolucci fu anche lui attaccato violentemente, in Italia ci fu un processo, la vicenda giudiziaria andò avanti fino all’87 quando infine dichiarato opera d’arte venne dissequestrato. A Maria rimane nel tempo un progressivo e crescente dolore con cui non riuscirà mai a trovare pace: dipendenza, ricoveri in clinica, una carriera che non decollerà, l’infelicità. Questa rappresentazione però, per la volontà «dimostrativa» di cui si diceva diventa un’occasione sprecata. Palud poteva partire da qui per indagare negli anni le dinamiche sociali del cinema, i paradossi dei moralismi – all’epoca scandalizzò la sodomia ma non che si trattasse di una violenza – e insieme le aspettative, i desideri e le paure insiti nell’arte del recitare con le sue contraddizioni. «È solo un film» dice a Maria Brando dopo la scena. E questo sottile limite della messinscena deve essere netto, mentre nella mediatizzazione dello scandalo divenne invasivo e non gestibile specie per una ragazza giovane come era lei, appena ventenne, e senza gli strumenti per affrontarlo.

La regista invece dimentica il cinema (francamente il film è proprio mediocre nella sua visualità) e sembra non volersi mai mettere in gioco. Decide di appoggiarsi unicamente a certezze, slogan, proclami, manipola, piega al suo «processo» ogni dettaglio svuotando il personaggio delle complessità che sono in ogni vita.