Un bianco e nero anni trenta così perfetto e smagliante che è quasi 3D, disteso però nell’ampiezza orizzontale del Cinemascope, un famoso backstage hollywoodiano intrecciato a una campagna elettorale che ha riflessi sul presente. È Mank, il nuovo film di David Fincher, uscito venerdì scorso in una manciata di sale Usa (quelle aperte), e in arrivo su Netflix il 4 dicembre. Iniziato con la serie House of Cards e continuato con Manhunter (un oggetto magnificamente ossessivo quanto i suoi film e il lavoro dei pionieri della scienza forense sui serial killer) il rapporto del regista di Zodiac con la piattaforma di Ted Sarandos si è evoluto in un progetto che Fincher aveva in cantiere da anni, tratto da una sceneggiatura di suo padre Jack. Lo sfondo è il making of di quello che molti considerano il migliore film della storia, Quarto potere; l’accento però non sul leggendario esordiente che lo ha diretto, ma sullo scrittore alcolizzato e sull’orlo della disgrazia con cui Orson Welles condivide il credit (e l’Oscar) per la sceneggiatura.

IL PRIMO CRITICO teatrale della rivista «New Yorker» e un membro della famosa tavola rotonda dell’Algonquin, Herman J. Mankiewicz aveva importato a Hollywood lo spirito caustico e la penna affilatissima della New York letteraria di Dorothy Parker, George S. Kaufman, Alexander Woolcott e co., mettendoli al servizio della Paramount, di Joseph von Sternberg e dei fratelli Marx. È sua la sceneggiatura di Pranzo alle otto e, sembra, anche l’idea del Kansas in bianco e nero nel coloratissimo Il mago di Oz. Poco diplomatico sul lavoro come ai cocktail party, Mankiewicz venne licenziato più volte (incluso da Harold Ross, direttore del «New Yorker») e la sua impunità lo rese in breve tempo un ospite sgradito anche nei salotti un tempo conquistati dal suo humor dissacrante.
Nemico dichiarato di Hitler ben prima che i grandi capi degli studios decidessero di diventare antinazisti, entro il 1939, Mankiewicz era diventato un paria per l’industria, il suo alcolismo un dato pubblico, fonte di numerosi imbarazzi. Ed è in quel momento di vulnerabilità che entrò in scena Orson Welles, ragazzo prodigio del teatro di New York, che aveva appena firmato con la Rko un contratto che gli garantiva la libertà totale su due film. Fincher apre con l’arrivo di «Mank» (Gary Oldman) in un ranch californiano a un centinaio di chilometri da Los Angeles. È lì che Welles lo manda «in ritiro» per scrivere la sua sceneggiatura, un ritiro che coincide con la convalescenza dopo un incidente di macchina che tiene lo scrittore immobile al letto.

ED È DA LÌ che partono i numerosi flash back in cui si articola il film (in un gioco di specchi con lo stesso Quarto potere), che ci porta all’inizio della decade quando Mank era un iconoclasta ancora tollerato nei corridoi della Mgm e a cene importanti, come quelle che spesso si tenevano a San Simeon, il fantasmagorico castello del tycoon dell’editoria William Randolph Hearst. David O. Selznick, Irvin Thalberg, Louis Mayer popolavano quelle cene animate da conversazioni vorticosamente dribblanti il pettegolezzo light e l’intrigo politico ad altissimo livello. Mank è il film più intricato di storie e personaggi e più fitto di dialoghi mai realizzato da Fincher, un autore allo stesso tempo sensuale e freddo, come lo sguardo che getta su Hollywood. Si tratta di uno sguardo atipico, originale, che non è romanticismo, né satira, né elegia.

QUESTO DISTACCO affascinante si attenua leggermente nelle scene tra Mank e l’amante di Hearst, Marion Davis (Amanda Seyfried) con cui lo scrittore aveva un affettuoso rapporto di amicizia e di bevute. È molto bello il momento del loro primo incontro, sul set, mentre lei è legata in cima alla pira di un rogo. Bellissimo un altro tete e tete mentre lei sta «traslocando» il suo intero bungalow – i pezzi su camion in carovana – dalla Mgm alla Paramount. Mank le chiede di tornare indietro per dire una cosa a Mayer e lei risponde che non può. «Intanto non so mentire. E poi, soprattutto, ho già fatto la mia uscita». Sette o otto anni dopo, la consuetudine di Mank con Hearst, Davis e il loro circolo avrebbe costituito il fondamento di Quarto potere, ci racconta Mank, sovrapponendo la loro storia a quella molto affascinante di una campagna elettorale per il governo della California in cui il candidato democratico era lo scrittore socialista Upton Sinclair, sgraditissimo all’establishment hollywoodiano che – vediamo- ne demolì la carriera politica a forza di fake news, camuffate da newsreels. Nel suo nuovo film Fincher suggerisce – come Pauline Kael nel suo famoso saggio Rising Kane – che Mankiewicz abbia avuto un ruolo molto più grosso nella creazione di Quarto potere di quello attribuitogli da Welles e da molta storia del cinema. Ma così facendo contraddice un po’ anche sé stesso. Perché non ci sono mai dubbi su chi sia l’autore di un film di David Fincher.