All’aeroporto Modibo Keïta- Sénou di Bamako i migranti espulsi dalla Francia sbarcano tutte le settimane. «Non importa che ci sia il covid-19 o no, dall’Europa continuano ad arrivare voli con a bordo giovani maliani a cui non è stato riconosciuto un regolare permesso di soggiorno», racconta Ousmane Diarra, presidente l’Associazione Maliana degli Espulsi (Ame).

REALTÀ MALIANA CREATA nel 1996, l’Ame è stata costituita al fine di rappresentare i numerosi rimpatriati, in un paese dove i cosiddetti migranti di ritorno non sono assistiti né incoraggiati a reintegrarsi. «Alcuni di loro hanno vissuto all’estero anche vent’anni e quando rientrando si sentono alienati. Al loro arrivo non hanno neanche un centesimo per permettersi una telefonata», spiega il presidente dell’Ame, raccontando che lui stesso ha vissuto in prima persona le conseguenze di una migrazione che lo ha portato a stare per diversi anni in Angola. «A quel tempo in Mali non si parlava di diritti dei migranti e chi veniva rimpatriato si doveva nascondere, perché considerato alla stregua di una persona maledetta».

LE PAROLE DI OUSMANE Diarra, anche se riferite a tempi lontani, non si discostano poi così tanto dalla realtà attuale e la reintegrazione in Mali continua ad essere un processo molto difficile. M.D. ha solo 24 anni e quando ne aveva 19 è salito su un pick-up raggiungendo la Libia con l’idea di prendere un barcone per entrare in Europa. «Una volta a Tripoli non sono riuscito a mettere da parte i soldi necessari per pagare il passeur», dice M.D. nel ricordare i tre anni passati in Libia: «Quel poco che guadagnavo lo usavo per tirare avanti, oppure me lo rubavano. Così nel 2018 ho deciso di rientrare in Mali perché non ne potevo più». Ma l’accoglienza che il giovane ha trovato a casa, non è stata come se l’era aspettata. «I miei genitori non sono stati contenti di rivedermi perché mi sono presentato a mani vuote. Anche con i miei coetanei ci sono stati, e ci sono tuttora, dei problemi. Credevano che avessi fatto fortuna all’estero e che non la volessi condividere; la gente continua a considerarmi ricco, a tre anni dal mio ritorno».

LE DIFFICOLTÀ LEGATE al ritorno nel paese natale rappresentano un aspetto che i giovani in procinto di partire non tengono in considerazione: valutano i rischi del viaggio di andata, ma non sono messe in preventivo le conseguenze di un possibile rientro, volontario o meno che sia. Tra queste, la stigmatizzazione.

I GIOVANI CHE rimpatriano senza portare con sé dei guadagni da condividere con la comunità incontrano spesso, oltre che a ostacoli economici dovuti alla necessità di ricominciare da zero (in Mali la percentuale di lavoratori salariati è pari al 19%, Banca Mondiale 2020), anche diversi ostacoli sociali. Infatti, il ripudio da parte della famiglia e della collettività, che li etichetta come dei buoni a nulla, diventa una pesante fardello con cui convivere. Senza considerare il senso di sconfitta personale.

«AL MIO RITORNO MI sono sentito un fallito. È una grandissima umiliazione non aver realizzato il mio sogno», racconta F. S. C., classe 1996, che dopo aver trascorso 3 anni a Bata in Guinea Equatoriale, è rientrato a Diago, un piccolo comune a nord di Bamako. «Malgrado tutto, cerco di condividere la mia esperienza per far capire soprattutto ai più giovani che la migrazione è dura. Ma non è detto che mi ascoltino: chi vuole veramente partire si tappa le orecchie e prende come esempio i migranti che all’estero ce la fanno. Molti ragazzi, qua a Diago, stanno per partire». Della migrazione si parla molto in Italia; è un tema che raramente manca nelle notizie del giorno, anche se più o meno strumentalizzato e nella maggior parte dei casi trattato da un punto di vista eurocentrico: i numeri degli sbarchi, i morti, i sopravvissuti, l’opinione del politico di turno. Tuttavia, quasi nulla si sa sulla seconda parte del lungo calvario che i migranti, dopo aver attraversato mezzo continente africano, un mare intero e un processo burocratico che dura svariati anni, devono affrontare una volta rimpatriati.

S.D. HA TENTATO LA FORTUNA in vari paesi africani, lasciando il Mali nel 2011 per un viaggio che lo ha portato a passare per la Nigeria, il Camerun, il Gabon, la Repubblica del Congo, il Mozambico e l’Angola. «Sono partito che ero studente universitario. A quel tempo studiare a Bamako era troppo costoso per me, ero così squattrinato che dovevo chiedere soldi ai miei genitori in continuazione. Soldi per pagare le tasse, soldi per mangiare, soldi per i mezzi di trasporto. I miei familiari riversavano su di me tutte le loro aspettative, speravano che grazie ai miei studi li avrei tolti dalla povertà, ma io avevo la sensazione di vivere sulle loro spalle e così mi è venuta voglia di andarmene».

IN AFRICA È MOLTO comune che il figlio maschio che emigra si trascini al seguito un pesante carico di pressione psicologica dovuta alle speranze riposte su di lui da tutta la famiglia. «Dopo nove anni passati all’estero ho deciso di tornare in Mali, ma ero senza un soldo e non sono riuscito a ripagare il prestito che avevo contratto con la mia famiglia per partire», continua a raccontare S.D., che oggi lavora in un cementificio, alla giornata e senza un contratto regolare. «Quando parti tutti pensano che farai affari, ma se torni senza dei risparmi la vergogna che provi è enorme. Forse avrei dovuto terminare gli studi invece che partire».

TUTTAVIA, ANCHE PER CHI ha la possibilità di seguire e completare una formazione non è immediato trovare un impiego: nel grande paese sub-sahariano il mercato del lavoro è saturo e i neo-laureati spesso rimangono disoccupati o devono accontentarsi di lavori molto umili e mal retribuiti. Come A.C., che ha studiato legge all’Università di Scienze Giuridiche e Politiche di Bamako e, anche se oggi è avvocato, si trova a dover coltivare un piccolo terreno per arrivare a fine mese. «Raggiunto il diploma non riuscivo a farmi assumere da nessuna parte. Così sono andato in Senegal per seguire un master di specializzazione, ma vivere a Dakar era troppo costoso e sono dovuto rientrare», riferisce senza piangersi troppo addosso A.C. «Ma sa qual è la cosa peggiore? Che i giovani, vedendo che chi studia non ha successo, si mettono in testa che andare a scuola non serva e si convincono che la soluzione ai loro problemi sia altrove, all’estero».

IN MALI, DOVE IL 44% della popolazione vive sotto la soglia nazionale di povertà (Nazioni Unite, 2020), a provare a riscattare le proprie famiglie dalla povertà non sono solo gli uomini, ma anche le donne. Si spostano da sole, spesso ancora giovanissime, in cerca di un’occupazione o per fuggire da situazioni familiari complicate. «Ho preso un autobus da sola per la Guinea, avevo 15 anni quando sono partita», ricorda M.K. «A Conakry ho fatto la domestica, mi costringevano a lavorare giorno e notte, a volte non avevo neanche il tempo di dormire», racconta la giovane, oggi ventitreenne, che per rilasciare questa intervista ha dovuto prendere un giorno di congedo non retribuito dall’azienda maliana dove lavora attualmente.

«Oggi mi occupo della confezione di prodotti alimentari. Lavoro tutti i giorni dalle 6 alle 16 e il mio salario è di 30.000 fcfa mensili (circa 50 euro)». Alla domanda “Vorresti partire ancora?”, M.K. annuisce senza esitare: «Il mio stipendio non è sufficiente e la precarietà quotidiana mi fa sognare di andarmene e racimolare quel che basta per aprire un negozio tutto mio».

IL PARADOSSO DEI POSTI poveri come il Mali è che chi ritorna, e fortunatamente un impiego lo trova, deve comunque continuare a far fronte a numerosi ostacoli economici, come salari al limite del ridicolo e contratti lavorativi inesistenti. Situazioni queste che contribuiscono ad alimentare il desiderio di riscatto e cambiamento.

ALCUNE ORGANIZZAZIONI internazionali stanno cercando di promuovere programmi di reinserimento per i rimpatriati, operando in un contesto dove regna il vuoto istituzionale e la stigmatizzazione sociale. Ma l’idea veicolata dalle loro campagne informative che mirano a promuovere un’immagine positiva del migrante che ritorna e diventa improvvisamente imprenditore di sé stesso (contribuendo magari a risollevare le sorti anche dell’intera nazione), non corrisponde però alla maggioranza dei profili di rimpatriati.

«A VOLTE PENSO DI PARTIRE ancora, qua non c’è lavoro. Ho anche pensato di arruolarmi con le Forze Armate Maliane, ma purtroppo ho superato il limite massimo di età», racconta T.K., tornato in Mali nel 2019 dopo aver passato due anni in Libia, di cui diverse settimane in un centro di detenzione.

IL SOGNO DELLA migrazione per molti giovani maliani e maliane continua ad essere alimentato e coltivato, a volte come mero stratagemma per tenere occupata la mente e non pensare al presente, ma spesso come vero e proprio progetto da realizzare di nuovo.