Quest’anno il padiglione della Polonia e la sua facciata sono stati una vera e propria gioia per gli occhi. Merito di Malgorzata «Gosia» Mirga-Tas e del suo progetto Re-enchanting the World che riprende il titolo in inglese di una raccolta di saggi della sociologa ed attivista Silvia Federici. Gosia che non predica affatto, razzola bene. L’artista polacca di etnia rom taglia, cuce e compone da oltre 15 anni pannelli, stendardi e paraventi, seguendo l’approccio delle cooperative di riproduzione che restano secondo Federici uno dei pochi strumenti per resistere alla logica frenetica del capitalismo. E lo fa sempre coinvolgendo i membri della propria famiglia e la comunità locale. E anche grazie a loro, e ai curatori Joanna Warsza e Wojtek Szymanski, che è nato il primo padiglione rom nella storia dell’Esposizione Internazionale d’Arte. Abbiamo parlato con Gosia che attualmente si trova a Berlino per una residenza artistica Daad. Fin qui tutto bene in Germania ma la sua casa nel villaggio di Czarna Góra in un angolo dei Monti Tatra, le manca, eccome.

Come è nato il progetto del padiglione polacco all’ultima Biennale di Venezia?
Ogni due anni gli artisti presentano una domanda di partecipazione alla Galleria Zacheta a Varsavia. Il progetto Re-enchanting the World è stato scritto a sei mani da me insieme a due curatori. Joanna e Wojtek hanno lavorato duro. In seguito la commissione valuta le diverse proposte senza conoscere i nomi dei curatori coinvolti in un dato progetto. È un processo che serve a rendere il tutto più meritocratico. Abbiamo poi preparato l’allestimento in 5 mesi anche con il sostegno dell’Istituto europeo per le arti e la cultura rom (Eriac) che ha sede a Berlino.

Avete lavorato in situ a Venezia?
Ho raccontato a un conoscente del villaggio in cui vivo di aver bisogno di uno spazio relativamente grande per realizzare il progetto. E lui che mi ha indirizzato verso un albergo storico in disuso a Zakopane, una rinomata località turistica sui Monti Tatra. L’Hotel Imperial dove abbiamo disegnato, tagliato e cucito anche insieme alla mia famiglia è stato poi in parte demolito. Dall’alto del balcone di una sala ricevimento potevo osservare l’opera nel suo farsi con un solo colpo d’occhio.

E da un punto di vista più pratico come si è svolta la fase realizzativa di «Re-enchanting the World»?
Ho preparato gli schizzi che poi abbiamo rivisto con un architetto per strutturare la composizione suddivisa in mesi. I disegni sono stati ingranditi e trasferiti su tela per definire le linee di cucitura sui pannelli. Eravamo in quattro a cucire inclusa mia zia materna con cui lavoro spesso e altre due sarte della mia regione.

In che modo entra in gioco l’ispirazione agli affreschi di Palazzo Schifanoia nel progetto?
Non sono stata a Ferrara. Durante la fase di progettazione abbiamo pensato di mettere insieme un nuovo ciclo di eroine rom comuni e famose. Si tratta di un’iniziativa che avevo già in parte intrapreso con un ciclo di opere esposte presso la galleria Arsenal a Bialystok nel nord-est della Polonia. A Wojtek è poi venuta l’idea di creare una struttura di dodici pannelli organizzati su tre registri, sulla falsariga di quella di Palazzo Schifanoia, e suddivisi per mesi separati da finte paraste come nel Salone dei mesi. Per me il registro inferiore funziona un po’ come un generatore di memorie: le storie di episodi tratti dalla vita quotidiana delle comunità rom con cui ho avuto la fortuna di interagire hanno comportato diversi sacrifici essendo stata costretta a lasciare fuori dal ciclo altre figure importanti per motivi di spazio.

Małgorzata Mirga-Tas, Re-enchanting the World, exhibition view, Polish Pavilion at the Biennale Arte 2022. Photo Daniel Rumiancew. Images courtesy Zachęta National Gallery of Art

A colpire i visitatori del Giardini della Biennale è stata la scelta di decorare anche la facciata del padiglione polacco. Come nasce questa scelta?
Mi sono ricordata che nel XV secolo in Italia sono nati i tarocchi che all’inizio erano soltanto usati come carte da gioco. Successivamente pare che i rom abbiano cominciato a utilizzarli in giro per l’Europa come medium per leggere il futuro. Per la mia amica e sociologa Ethel Brooks la lettura dei tarocchi svolge anche una funzione psico-terapeutica all’interno di una comunità. In effetti la lettura delle carte è anche un modo per analizzare gli esseri umani e raccontarne la personalità. Ad un certo punto mi sono imbattuta in un tarocco rom riportante la parola «baxt» che in lingua romaní significa «fortuna». Abbiamo così deciso di decorare l’esterno del padiglione con del tessuto raffigurante uno degli arcani maggiori, la Ruota della fortuna, a simbolizzare la ciclicità e il destino nella sua volubilità, le trasgressioni, e il suo essere principio o fine, a seconda dei casi.

Come è stato accolto il padiglione dai non addetti ai lavori?
Una delegazione di rom in Italia alla quale ho mostrato il progetto il giorno successivo all’inaugurazione si è commossa nel vedere il primo padiglione rom nella storia della Biennale. C’è anche chi è scoppiato in lacrime. Spero che questo progetto possa portare ad una maggiore apertura del mondo dell’arte nei confronti dei rom. Sembra che qualcosa si stia smuovendo. A settembre scorso in occasione della 15esima edizione di Documenta, è stata presentata la collettiva One Day We Shall Celebrate Again, organizzata da RomaMoMA, un progetto portato avanti dall’Off-Biennale di Budapest insieme all’Eriac.

Spesso ho comunque l’impressione che a volte i curatori si sentano paralizzati di fronte all’idea di presentare artisti rom.
Forse è proprio questo il punto: mancano curatori rom nel circuito dell’arte contemporanea.
È vero non ci sono molti curatori rom in giro. Per riappropriarci della nostra identità dobbiamo cominciare a prendere in mano la nostra storia per raccontarla noi stessi. Chissà se tra due anni dopo Venezia non saremmo punto e daccapo a livello di visibilità. Ho spesso l’impressione che chi racconta la cultura rom dall’esterno lo fa con quel senso di superiorità intellettuale di chi, in maniera più o meno celata, si trova a raccontare l’Altro. Per me è fondamentale coinvolgere la comunità locale nei miei progetti artistici. Ogni comunità ha i propri eroi ed eroine. Se faccio un progetto in Svezia voglio lavorare con curatori e rom del posto.

In che modo la cultura rom può uscire dalla gabbia del museo etnografico?
Il museo di Tarnów, una città nel sud della Polonia, ad esempio, presenta artefatti della nostra cultura. Eppure i rom sono esclusi dal recente dibattito internazionale sulla restituzione delle opere, sottratte in tempi non sospetti dai colonizzatori ai colonizzati. Eccelliamo nella lavorazione del metallo. Penso ad alcuni cancelli realizzati per le chiese locali nel Podhale, una regione ai piedi dei Tatra. Conservo con orgoglio dei chiodi artigianali che rischiavano di essere gettati via. Bisogna anche ammettere che gli artefatti rom non stati ambiti come le sculture africane o le stampe giapponesi. E vero gli oggetti da noi creati non suscitano un simile interesse tra collezionisti e studiosi ma la nostra immagine con tutti gli stereotipi del caso, quella sì. Siamo diventati il soggetto di numerosi nomi in ogni epoca: Dürer, Callot o i nostrani Juliusz Krajewski, Wojciech Weiss, Maksymilian Gierymski, per non parlare del personaggio di Esmeralda tratto dal Gobbo di Notre Dame nelle sue incarnazioni per lo schermo. Wojtek e Natalia Zak curatori della personale Travelling Images. Malgorzata Mirga-Tas in corso presso il Centro Internazionale di Cultura (Mck) a Cracovia hanno trovato numerosi altri esempi tratti dalla storia dell’arte (la mostra sarà visitabile fino al 5 marzo 2023 ndr).

Il suo monumento ligneo sullo sterminio dei rom durante la seconda guerra mondiale è stato oggetto di episodi di vandalismo nel 2016. Come ha reagito?
Per fortuna la base non è stata distrutta. Gli altri pezzi sono stati sostituiti. La scultura è ancora in un bosco a Borzecin Dolny, nei dintorni di Tarnów. Non è che la gente abbia smesso di odiare ma forse con il tempo sta diminuendo quel senso di impunità che istigava le persone ad essere intolleranti verso l’Altro. Voglio sperare che il monumento resterà li ancora a lungo.