«Quando avevo quattro anni chiesi a mia madre quando sarei ventata bianca: tutti i “buoni” che vedevo in tv erano bianchi, mentre “i cattivi” sempre neri o brown. Mi consideravo una dei “buoni”, perciò credevo che prima o poi sarei diventata bianca anch’io. Mia madre non ha mai dimenticato l’espressione delusa sul mio viso quando mi diede la cattiva notizia».

SI PUÒ LEGGERE anche come una sorta di memoir il libro che ha proiettato la scrittrice e giornalista britannica Reni Eddo-Lodge al centro del dibattito internazionale sulle diverse declinazioni del razzismo. Il percorso scandito lungo le pagine di Perché non parlo più di razzismo con le persone bianche (e/o, pp. 230, euro 16,50, nell’attenta traduzione di Silvia Montis), che l’autrice presenterà oggi online alle 19,45 dialogando con Djarah Kan nell’ambito del festival milanese BookCity, descrive infatti a un tempo una presa di coscienza individuale e il suo farsi progressivamente collettiva.

Lo spunto iniziale per il volume è il post dallo stesso titolo che Eddo-Lodge pubblicò nel 2014 sul suo blog suscitando reazioni contrastanti. Cinque anni più tardi, un tempo assortito di «ansie, frustrazioni, chiarimenti estenuanti e commenti interminabili su Facebook», il testo assumeva la sua forma attuale: vale a dire quella di un’indagine senza sconti non solo sulle forme più evidenti e sinistre del razzismo, ma anche sui suoi aspetti più sfuggenti e ambigui, in particolare quelli che anche ai bianchi dotati di «buona volontà» sembrano risultare irrilevanti o addirittura invisibili.

SI TRATTA INFATTI di misurarsi prima di tutto con ciò che si definisce nei termini di «privilegio bianco», una condizione «strutturale» che non necessariamente ha a che fare con le scelte individuali. «Quando ne parlo – spiega Eddo-Lodge -, non voglio dire che i bianchi abbiano sempre vita facile, che non abbiano mai dovuto lottare o vivere in povertà, ma del fatto che, se sei bianco, l’idea di razza avrà avuto quasi sempre un impatto positivo sulla tua esistenza. E magari non te ne sei neppure accorto».

Per rendere evidente la presenza «sistemica» di un razzismo che spesso viene denunciato, e prima ancora percepito, solo attraverso le forme brutalmente aggressive del suprematismo bianco e delle culture di destra, questa giovane donna nera cresciuta nella periferia nord di Londra ha così scelto di passare in rapida rassegna l’intera storia britannica.

Grazie ad un timbro narrativo di grande forza e alla capacità di porre in piena luce pagine in gran parte dimenticate della storia nazionale, Eddo-Lodge fa così riemergere non solo la memoria delle navi negriere che salpavano dai porti di Liverpool e Plymouth, ma anche le violenze razziali che scossero le città britanniche già nel periodo compreso tra le due guerre mondiali o lo sviluppo di un vero e proprio movimento per i diritti civili dei neri della Gran Bretagna, con epicentro Bristol, negli stessi anni in cui il reverendo King conduceva la propria battaglia oltreoceano. E il filo della ricerca si snoda via via fino ad oggi, a quel referendum sulla Brexit che ha riproposto in termini di massa le retoriche razziste, e fasciste, sulla «fine» dell’«isola dei bianchi».

IL PUNTO, ribadisce però costantemente l’autrice che lungo il proprio itinerario si misura in modo approfondito anche con il dibattito femminista, è non perdere di vista il fatto che accanto alla violenza e alle discriminazioni patenti scorre il quieto funzionamento di un sistema che traduce la stratificazione storica del mito della razza in forme quotidiane di discriminazione. Meccanismi che informano di sé perfino il modo in cui si percepisce chi è destinato a farne le spese. Al punto che il «privilegio bianco» si può rappresentare come «una coltre di potere, asfissiante e manipolatrice che avvolge tutto ciò che conosciamo, come la neve in un giorno d’inverno».