«La conclusione di due anni di vita così importanti meriterebbe notevoli considerazioni fisio-psicologiche; i dettagli li rimando a voce sulle forze certo non è da dare un giudizio sicuro Sulle energie morali posso fare invece assai più sicuro affidamento: perché credo che non esista vita che richieda un così continuo controllo di sé e dei suoi rapporti umani come quella del recluso».

Quando l’8 dicembre 1941 Lucio Lombardo Radice, ormai prossimo alla scarcerazione, scrive alla sua famiglia queste righe l’esistenza sua e dell’Italia sono immerse nella tragedia della Seconda Guerra Mondiale scatenata da Hitler e Mussolini.

Dal 1939 Lombardo Radice, con tanti suoi compagni, si trova prigioniero della dittatura dopo l’arresto e la condanna da parte del Tribunale Speciale di Difesa dello Stato per «attività comunista» compiuta contro il fascismo attraverso la costituzione di un gruppo di studenti (tra i quali Pietro Ingrao, Antonello Trombadori, Paolo Bufalini, Mario Alicata, Bruno Zevi, Paolo Solari) già in contatto con il centro estero del Partito Comunista d’Italia per il tramite di Giorgio Amendola.

LA CORRISPONDENZA tenuta da Lucio Lombardo Radice con la famiglia nei due anni di reclusione (119 lettere), pubblicata nel volume curato da Claudio Natoli Da Regina Coeli a Civitavecchia. Lettere dal carcere 1939-1941 (Viella, pp. 190, euro 28) rappresenta un punto di osservazione di grande rilievo per comprendere caratteri, fattori e processo di formazione politico-culturale della giovane generazione antifascista durante i lunghi «anni del consenso» al regime, ovvero nel punto massimo di conformismo della società italiana che con entusiasmo aveva sostenuto tanto le guerre coloniali e razziste in Africa, che avevano riportato «l’impero sui collo fatali di Roma», quanto l’aggressione che aveva permesso a Francisco Franco di soffocare la Spagna repubblicana.

Proprio nel 1936 Lombardo Radice e i suoi compagni operarono la definitiva rottura umana, culturale e politica con il regime che gli permise di «uccidere il padre»: quello Stato fascista che aveva puntato sull’indottrinamento delle generazioni nate a ridosso della «marcia su Roma» per creare un’obbedienza esistenziale che avrebbe dovuto imporre di «credere, obbedire e combattere» in nome di Mussolini.

Nelle lettere e nelle riflessioni del prigioniero Lombardo Radice il «lungo viaggio attraverso il fascismo», come lo chiamerà Ruggero Zangrandi, si mostra da un lato in tutta la sua drammaticità e cupezza (la repressione, il carcere, l’isolamento degli oppositori) e dall’altro nell’emergere delle istanze di liberazione che trovano il loro abbrivio in quell’incontro tra il grande moto della storia e la generazione formatasi «nell’università popolare del carcere di Civitavecchia».

UN INCONTRO che determina la vicenda del giovane studioso attraverso il contatto e la combinazione con le classi popolari: «avevo sempre vissuto in ambienti colti, di intellettuali. Nel carcere di Civitavecchia “scoprii”, per così dire, operai e contadini, anzi gli operai e i contadini di avanguardia fu una scoperta entusiasmante una seconda università, tutto sommato più importante della prima nella mia formazione come uomo».

È un’esperienza personale che rappresenta una parte centrale di quella che (parafrasando Piero Gobetti) si potrebbe definire «autobiografia della nazione antifascista» ovvero quel passaggio storico che transitò donne e uomini dalla dissidenza teorica all’atto pratico; dall’emancipazione critica all’azione di rovesciamento del regime, portando all’incontro tra intellettuali e proletariato: «questa scoperta della classe operaia – scriverà Lombardo Radice – come classe fondamentale nella lotta per la libertà e la democrazia, per il riscatto dell’Italia a Roma la facemmo da soli fu il nostro travaglio della fine degli anni Trenta».

SCONTATA LA PENA e uscito di prigione nel dicembre 1941 Lombardo Radice riprese da subito l’attività clandestina con il Gruppo comunista romano fino al suo nuovo arresto nel giugno 1943. Scarcerato dopo la caduta del fascismo del 25 luglio diverrà nel dopoguerra un dirigente del Pci sempre aperto alle ragioni e alla legittimità del dissenso all’interno del mondo comunista tanto attorno alle grandi crisi internazionali (dalla primavera di Praga alla difesa del dissenso nei paesi dell’est) quanto alle questioni italiane (fu uno dei cinque astenuti nel momento del voto di radiazione del gruppo de Il Manifesto dal Pci).

Un profilo che traeva radice d’origine proprio dall’esperienza in carcere da cui era uscito trasformato per sempre: «Tutto sommato abbiamo vinto noi, anche se loro erano i forti, noi i deboli: siamo usciti dal carcere molto più colti, più maturi, più capaci di cambiare la faccia del mondo».