Quando la prognosi è infausta non vi è nulla di più naturale e istintivo che prendere tempo, rinviare il momento della definitiva disfatta. Non ci sarebbe dunque da stupirsi che il 66 per cento degli iscritti alla Spd abbia dato il suo assenso alla riedizione della Grande coalizione con la Cdu di Angela Merkel e la Csu di Horst Seehofer. Un ritorno alle urne si annunciava catastrofico. E questa paura ha influito ben più di qualsiasi pulsione governativa. Bisogna riconoscere a ogni modo che la decisione finale del partito di rinnovare l’alleanza è passata attraverso un procedimento democratico ineccepibile, tanto che gli oppositori non disperavano fino all’ultimo di riuscire a conseguire una risicata maggioranza.

La base si è rivelata addirittura più favorevole alla Grosse Koalition degli stessi delegati al congresso straordinario del partito che la avevano appoggiata solo al 56 per cento. A riprova di quanto il corpo del partito e i suoi elettori aderiscano in larga misura a un sentire prudente e conservatore proprio di quelle figure sociali protette che meno sono state colpite dagli effetti della crisi e vessate dagli imperativi (in gran parte di marca socialdemocratica) della competitività tedesca. Non è un caso dunque che con il contrarsi della platea dei “garantiti” e con l’irrigidimento delle politiche sociali si contragga anche il bacino elettorale della Spd. E non si vede perché né come all’interno di un governo di coalizione in piena continuità con il precedente la Spd possa invertire la rotta liberista tracciata da Schroeder nel 2003 con la sua “Agenda” riformatrice, come aveva invece promesso Martin Schulz, e arrestare un declino che si configura ormai come tendenza storica.

Volendosi chiedere perché la Spd avesse giurato e spergiurato durante tutta la campagna elettorale (e anche dopo i deludenti risultati conseguiti) di rifiutare nella maniera più assoluta una continuazione del condominio con Angela Merkel per poi dichiararlo senza alternative l’unico argine alla catastrofe politica, si troverebbero solo risposte legate alla contingenza o a un pragmatismo di corto respiro. Non è stato uno spettacolo tale da suscitare fiducia. Quella che è evidente è una totale mancanza di prospettiva sul futuro. La socialdemocrazia non può certo riproporsi con i tratti e lo strumentario della sua parabola novecentesca. Ma fino ad oggi questo rinnovamento si è dato soprattutto in termini di adeguamento, nemmeno troppo mitigato, alle politiche liberiste, tanto da offuscare non solo l’identità quanto l’utilità politica stessa della Spd.

La sinistra del partito che esce oggi dalla contesa intorno alla Grosse Koalition (che, è bene ricordarlo, non è solo una formula di governo, ma quasi una filosofia politica) è più estesa e più giovane della sinistra storica che nella Spd ha combattuto molte e importanti battaglie ispirandosi alla tradizione. Se avrà la forza di passare al contropelo le scelte di governo con nuove sensibilità e di mantenere in vita la discussione sul futuro del partito lo vedremo.

Per ora l’ordine di scuderia della maggioranza è “non infierire” ed evitare toni trionfalistici, lasciando spazio alla minoranza. L’appuntamento è ora per il congresso del partito in aprile (a governo ormai fatto, previsto per metà marzo) ed è in quella sede che potrebbero configurarsi equilibri interni alla Spd non sovrapponibili alla sua facciata governativa. Nella migliore delle ipotesi è un percorso di ridefinizione lungo e complicato quello che potrà avviarsi. Ma, nel frattempo, non sarà una vita facile con la destra xenofoba di Afd divenuta primo partito di opposizione con tutte le prerogative che gli competono.

Con sguardo corto l’Europa tira il fiato e si congratula per la ritrovata stabilità tedesca e per essere scampata a una coalizione tra Merkel e i falchi liberali. La fede in una conversione sociale del successore socialdemocratico di Schauble (dovrebbe essere Scholz) non tarderà a essere smentita e anche l’asse tra il liberista Macron e una Germania non diversa da quella che conosciamo non sarà rose e fiori.