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Secondo avviso all’umanità

Secondo avviso all’umanitàUn orso artico in pelouche a una manifestazione ambientalista in Messico – LaPresse

Desertificazione Il video dell'orso artico moribondo su un’isola di Baffin senza più ghiacci è diventato il simbolo del riscaldamento climatico. Ma la partita per salvare il Pianeta non è ancora finita

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 19 gennaio 2018

«Pachamama te veo tan triste, Pachamama me pongo a llorar» cantava Manu Chao anni fa. La dea Pachamama triste, la Madre Natura per gli Inca, ha oggi un volto riconosciuto internazionalmente: quell’orso polare morente di stenti, affamato, magro, atrofizzato, su un terreno arido che dovrebbe al contrario essere bianco, innevato. La tristezza, la pena, la compassione, la rivolta interna e il senso d’impotenza, per un animale simbolo di fierezza ed emblema del regno dei ghiacci, ha smosso e colpito il nostro intimo pathos.

Dobbiamo ripartire da questo pathos per interiorizzare il «secondo avviso all’umanità» lanciato da più di 15.000 scienziati, pubblicato circa un mese fa, per sfidare chi oggi, con ignoranza, personali interessi finanziari e becero menefreghismo sta cercando di seppellire quell’appello angosciato.

Questo è il secondo avviso che l’esercito dei 15.000 scienziati ha reso pubblico. È in realtà un ultimatum intimato a società civile, politici, imprenditori. Quello precedente – «l’avviso degli scienziati mondiali all’umanità» – era stato lanciato venticinque anni fa dall’associazione americana Union of concerned scientists, ed era stato firmato da 1700 ricercatori, fra cui molti premi Nobel.

Con quel primo documento del 1992 s’imploravano i destinatari di agire immediatamente perché il processo di deterioramento dell’ecosistema appariva assai più rapido di quanto si immaginasse e che sarebbe stato «necessario un grande cambiamento nel nostro modo di pensare alla terra se si voleva evitare un enorme disastro umano». Avevano tradotto quanto la natura ci stava dicendo: che l’umanità stava spingendo gli ecosistemi della terra molto al di là delle loro capacità di sostenere la rete complessa di servizi imprescindibili al mantenimento della vita.

Nel documento del 1992 si richiamava l’attenzione sul buco nell’ozono, sulle riserve d’acqua dolce, sul collasso della pesca marina, sull’aumento delle aree morte negli oceani, sulla deforestazione, sul declino della biodiversità, sui cambiamenti climatici e sulla crescita continua della popolazione umana. Da allora, salvo che per il buco dell’ozono, le misure assunte per far fronte ai problemi indicati sono state fallimentari. Le ricerche scientifiche indicano un notevole peggioramento e la cosa più grave è che tutti quelli chiamati in causa perché si attrezzassero a far fronte al pericolo non hanno risposto all’allarme.

Il secondo avviso, quello di questi giorni, è molto più accorato. Come è naturale visti i dati forniti dagli indicatori. Particolare attenzione viene riservata alla crescita della popolazione umana (2 miliardi in più in venticinque anni) e di conseguenza del consumo. Quindi ai cambiamenti climatici, di origine antropica: combustibili fossili, deforestazione, allevamenti intensivi di animali da carne.

Al Mit, il Massachusetts Institute of Technology, il Mathematics predicts a sixth mass extinction ha recentemente studiato le cinque precedenti estinzioni di massa vissute dalla Terra. Ognuna ha registrato fra le sue cause anomalie nel ciclo del carbonio. Secondo i modelli matematici, entro il 2100, partirà la sesta estinzione di massa da 540 milioni di anni a questa parte. Questa volta scatenata da fattori umani e non naturali: poco più di due secoli d’industrializzazione.

Molto dipenderà dalla risposta degli oceani, i principali regolatori del clima, che finora hanno svolto un importante servizio ecosistemico, assorbendo le emissioni di anidride carbonica. E tuttavia questo assorbimento potrà durare solo fino a quando la saturazione non sarà completa, non molto a lungo visto che già ora l’anidride sta mettendo a repentaglio l’ecosistema marino. Molte delle attuali forme di vita sono destinate a estinguersi: gli studi hanno calcolato che la fauna selvatica è diminuita del 58% dal 1970 ed entro il 2020 si arriverà ai due terzi.

I modelli matematici del Mit non sono da prendere alla leggera, come è accaduto in occasione della pubblicazione del libro I limiti dello sviluppo pubblicato nel 1972 dal Club di Roma di Aurelio Peccei. Le previsioni formulate già allora sulla catastrofe ambientale furono non solo ignorate ma derise. I calcoli di allora si sono tutti avverati.

Il documento attuale non si limita ad elencare i disastri, consegna all’umanità una serie di prescrizioni da attuare in tempi rapidi. Sono linee guida che dovrebbero essere inserite nei bilanci nazionali, e che chiamano in causa la società civile affinché spinga i propri governi ad agire e i singoli individui a passare da un consumismo acritico a uno ragionato.

Stabilito che è necessaria un’azione collettiva, la transizione sostenibile può essere intrapresa cominciando dalla costituzione in tutto il mondo di vaste riserve naturali protette ben amministrate e finanziate: terrestri, marine, di acqua dolce. L’abbattimento di foreste, boschi, selve e habitat naturali a scopi puramente antropici deve essere interrotto sì da garantire i servizi ecosistemici.

Urge restaurare quelli autoctoni e ripopolare le zone selvatiche con fauna nativa, contrastandone l’estinzione con misure di contenimento delle specie invasive e aliene, con particolare riguardo alla tutela dei predatori apicali, come il lupo, favorendone il ripopolamento giacchè si tratta di regolatori dei processi ecologici. Dobbiamo imporre una riduzione del consumo del suolo, per un recupero del dissesto idrogeologico; attuare misure preventive contro gli incendi dolosi e le alluvioni catastrofiche; difendere la fauna dal bracconaggio e dallo sfruttamento di specie minacciate.

Dobbiamo drasticamente ridurre il nostro consumo di carne da allevamenti intensivi e ottenere un minor spreco di cibo. Dobbiamo dedicare tempo ed energie nell’educazione ambientale fin dai primi anni scolastici. Dobbiamo soprattutto fare in modo che vengano contabilizzati sempre, in ogni progetto, i costi ecologici oggi invisibili perché emergono solo nel lungo periodo.

Se dovessimo valutare il costo reale finale della cannuccia con cui beviamo dalle lattine ( e non solo), sarebbe tale da renderne indispensabile l’interdizione. Perchè prodotta da derivati del petrolio, in paesi dove il lavoro è sottopagato, trasportata con l’utilizzo di carburante con rilascio di anidride carbonica nell’atmosfera, usata per pochi minuti, quindi gettata, nelle migliori ipotesi, in discariche o trattata con ulteriore impiego di energia o, nelle peggiori delle ipotesi, rilasciata nell’ambiente terrestre e marino dove risiederà per secoli con notevoli danni e altissimi costi di recupero. E questo varrebbe per un’infinità di prodotti ritenuti indispensabili.

Tra le tante azioni da intraprendere, è fondamentale ripristinare le economie di prossimità, come già suggerito dall’American Geophysical Union nel 1999 in Waiting for a Signal: Public Attitudes Toward Global Warming, the Environment and Geophysical Research, considerato che i trasporti di merce attraverso il globo sono costosissimi in termini di guasti ambientali.

Questo elenco di impegni, seppur non esaustivo, ci indica un percorso obbligato se vogliamo salvare l’unica nostra casa. Affinché la morte di quell’orso polare – che ci avverte – non sia vana. Non abbiamo ancora perso. Ce la possiamo fare ma abbiamo bisogno di procedere molto presto a un cambio di rotta. Siamo alla finale dei mondiali. Siamo sotto due a zero e mancano venti minuti alla fine. Abbiamo bisogno del tifo, di un allenatore che riaggiusti il modulo, di cambiare un difensore con un attaccante, di una squadra compatta e convinta. La nostra sconfitta non è inevitabile.

Errata Corrige

Per uno spiacevole refuso, sull’edizione del manifesto in edicola il 19 gennaio 2018, il nome dell’autrice Raffaella Greco è stato trasformato erroneamente in Gabriella. Ce ne scusiamo con l’autrice e con i lettori.

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