C’è una scena assai eloquente, che riguarda Martin Luther King e la musica, nel lungometraggio Nina Simone (2015) diretto da Cynthia Mort e ancora inedito in Italia, dove la protagonista (ottimamente interpretata da Zoe Saldana) all’epoca è ancora famosissima e amatissima da un pubblico trasversale e eterogeneo, grazie alla brillante fusione di stili blues, gospel, jazz, soul, al canto e al pianoforte.

È il 4 aprile 1968, Nina Simone a casa sente alla tv la notizia dell’omicidio del Reverendo, dapprima incredula, poi commossa, quindi fuori di sé, corre verso un armadio da cui estrae una rivoltella per uscire in strada e vendicare l’eroe buono, pacifico, ma risoluto, di tutti gli afroamericani: viene fermata in tempo dal marito che la convince a usare altre armi, quelle di cui lei meglio dispone; e infatti Simone passerà il resto della giornata a scrivere uno dei suoi pezzi migliori, Why?, dedicato all’uomo, al leader, al benefattore tragicamente scomparso (quasi il prosieguo di Mississippi Goddam, il pezzo ispirato cinque anni prima da altri episodi razzisti).

Al di là del lungometraggio, anche le biografie più accurate – dedotte spesso dalle franche interviste rilasciate nel corso di una lunga carriera – raccontano che, dopo lo shock della notizia, la vocalist, oltre a comporre, telefona ad amici e colleghi, per organizzare, la sera stessa, una veglia funebre in forma di concerto; il riscontro è enorme, anche da parte dei musicisti bianchi, perché Martin Luther King risulta amato, rispettato, stimato dall’intera intellighenzia americana: persino un Frank Sinatra, che solo qualche mese più tardi passerà a sostenere Richard Nixon (dopo il pesante aiuto a John Fitzgerald Kennedy nel 1960 contro lo stesso futuro presidente), è da sempre a fianco del «Doctor» trilaureato.

Guardando le foto o i documentari in cui si vede il Premio Nobel per la Pace 1964 in marcia per i diritti civili, accanto a lui sfilano infatti i nomi illustri del mondo del cinema, del teatro, della letteratura, della televisione e appunto della musica.

Tuttavia apparire in video, per placare le acque, toccherà, la sera del barbaro assassinio, nel prime time, a un «soul brother» che fino allora può risultare se non opposto quantomeno diverso da Martin Luther King: James Brown. Sul piccolo schermo Mr. Dynamite invita i propri «fratelli» a calmarsi, a non reagire con la violenza, onde evitare il rischio di aggravare una situazione già tesissima e oggettivamente esplosiva, con le Pantere Nere, escluse dei media, ad aggirarsi tra i ghetti metropolitani, incitando a una rivoluzione permanente così radicale da fare impallidire quella trotzkista.

PERSUASORI OCCULTI

Si discuterà a lungo sulla scelta di James Brown che, secondo i maligni, accetta l’invito dietro un compenso altissimo: i persuasori occulti della comunicazione sanno d’altronde benissimo che, fra tutti gli esponenti popolari della black music, il cantante-ballerino resta tra i più significativi da un punto di vista politico, oltre ad esternare un carattere rissoso, trasgressivo, quasi superomistico a favore della causa afroamericana.

Come nel free jazz il pacifismo è simboleggiato dall’atteggiamento mistico di un John Coltrane (scomparso l’anno prima), mentre la lezione di Malcolm X viene ripresa dai dischi e dai concerti di Archie Shepp, così anche nella canzone sono altri, come si vedrà, gli autori e gli interpreti in sintonia con Martin Luther King, distanti insomma dal sound urlato idealmente colonna sonora del Black Power, dei Black Mulism, delle Black Panthers. Non a caso un verso di James Brown, scritto per onorare la vittima, diviene, assieme allo spontaneo «Black Is Beautiful», lo slogan più celebre dell’intero movimento nero; Say It Loud -I’m Black and I’m Proud (Dillo forte: sono nero e ne vado fiero) è anche il titolo del 45 giri dell’agosto 1968 composto assieme al sassofonista Pee Wee Ellis.

Anche la fama di sciupafemmine, persino sessista, porrebbe Brown contro King tutto casa, cortei e chiesa; tuttavia è proprio quest’ultima il trait-d’union fra i due, giacché entrambi crescono, vivono, maturano – uno artisticamente, l’altro ideologicamente – grazie alla musica sacra che, per la Black Community significa anzitutto gospel e spritual: non a caso, a voler identificare la persona con un solo disco, basta scrivere Mahalia Jackson Sings the Best-Loved Hymns of Dr. Martin Luther King, per aprire un mondo.

Ovviamente, per mancanza di tempo, King non può occuparsi direttamente di musica – va però ricordato un breve discorso per il Berlin Jaztage nel settembre 1964 – ma intreccia contatti e amicizie con gli esponenti di un tipo di canzone popolare, laica e religiosa, che deve servire all’impegno pacifista e alla lotta per i diritti civili.

Eppure, indirettamente, esiste anche un King musicista, ben al di là delle frasi campionate o rappate dagli anni Ottanta a oggi: ed è proprio il modo quasi di salmodiare i discorsi che, in quanto a struttura sia fonetica sia narrativa, derivano dalle prediche oratoriali in cui, nelle funzioni rituali, la parola del Reverendo è intercalata anche da semplici incisi di un vicino collaboratore o persino di un semplice fedele.

La frase cadenzata di King, per così dire sorretta o esaltata dai vari «è vero», «è giusto», «è bene», magari di un giovane Andrew Young, in senso responsoriale è già musica, nonostante il crescendo vocale in questo caso di proposito evita il canto esplicito o l’accompagnamento ritmico, come nel canto gospel e spiritual.

A livello storico la forma del botta-e-risposta deriva tanto dalle tradizioni occidentali (l’antica musica gregoriana in primis) quanto dall’Africa (in senso poliritmico) da cui King riprende, come tutti gli afroamericani, la vocalità forte, gridata, espressionista, quasi a sublimare dolore e tristezza, ma anche protesta e rivendicazioni degli oppressi.

DIECI ANNI

Non a caso infatti il genere musicale preferito da King è lo spiritual – anche nella variante evangelica del gospel, i cui testi sono tratti esclusivamente dal Nuovo Testamento – e la cantante preferita Mahalia Jackson, il cui sopraccitato Mahalia Jackson Sings the Best-Loved Hymns of Dr. Martin Luther King, uscito nell’agosto 1968, con dieci brani della tradizione da We Shall overcome a An Evening Prayer diventa subito un exploit mondiale (diffuso anche in Italia). Del resto, nei precedenti dieci anni, quando King si reca a Chicago è sempre ospite di Mahalia, la quale dalle parole del Reverendo comprende che per i giovani neri sta per arrivare un nuovo giorno.

E lei, nata poverissima, senza nemmeno la licenza elementare, per tale ragione crea una Fondazione a nome King, onde assegnare borse di studio agli allievi bisognosi, a cui raccomanda di dedicarsi allo studio con la stessa grande passione da lei nutrita per il canto nero. Durante la marcia su Washington del 1963 quando la vocalist sale sul podio e vede sotto di lei un’enorme folla di persone con migliaia di bandiere sventolanti, dopo un attimo di silenzio e di esitazione, comincia a intonare un vecchio spiritual: «Sono stato umiliato, sono stato disprezzato. Devo dirlo al mio signore, quando arriverò lassù. Per quanto tempo mi avete trattato ingiustamente…».

La gente applaude e subito dopo King attacca: «C’è un sogno dentro di me, il sogno di un giorno futuro in cui tutti gli americani si prenderanno per mano e canteranno, con le parole di un altro vecchio spiritual».