Ogni ora nel mondo muoiono per annegamento 40 persone, e il 90% dei decessi per questa causa avviene nei paesi a basso reddito, dove pochi sanno nuotare e mancano servizi di salvamento. Questo aveva spinto l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), nel 2014, a richiamare i Paesi, fra cui l’Italia, che non avevano ancora redatto e messo in atto un piano di prevenzione degli annegamenti, sia per quelli che avvengono in mare, sia quelli nelle acque interne (fiumi, laghi e canali).
A seguito di ciò, nel 2019 è stato istituito, presso il ministero della salute, l’osservatorio per lo sviluppo di una strategia nazionale di prevenzione degli annegamenti e incidenti in acque di balneazione, che nel 2023 ha prodotto un rapporto focalizzato principalmente sugli ambienti costieri marini, e che ora sta approfondendo il lavoro sulle acque interne.

LA TRAGEDIA nella quale sono morti i tre amici rumeni, strappati dalla corrente del fiume Natisone mentre si trovavano su di un isolotto – l’ultimo corpo è stato ritrovato ben tre settimane dopo la sua scomparsa – rilancia l’urgenza di un’azione concreta per ridurre il numero delle persone che annegano. Dei circa 400 casi che si registrano in media ogni anno in Italia, più della metà avvengono durante attività ricreative, in primo luogo la balneazione: 150 in mare, 79 in laghi, fiumi e canali e 35 nelle piscine. Ovviamente non si affronta qui il ben più drammatico problema di chi annega nel tentativo di raggiungere il nostro paese.

Ma per esprimere la dimensione e complessità del fenomeno, dovremmo considerare anche tutte le invalidità prodotte da un quasi-annegamento e dai traumi riportati in incidenti acquatici che possono portare a invalidità grave e permanente, come la tetraplegia, con enormi costi affettivi, sociali e economici. La difficile reperibilità delle informazioni, ed in particolare sulle reali cause dei decessi, rendono il quadro non ben definito, ma i dati più affidabili, che identificano anche il contesto in cui l’incidente si è verificato, e quindi le sue cause, sono quelli raccolti ed elaborati da Giorgio Pezzini e confluiti nel rapporto. Questi derivano dalle fonti di stampa lette con l’occhio di uno che da cinquant’anni si occupa di questo problema, prima come bagnino, poi come coordinatore di piani collettivi di salvamento e responsabile della direzione tecnica della società nazionale di salvamento.

IL RAPPORTO dell’istituto superiore di sanità, che è stato prodotto da un gruppo di lavoro interdisciplinare, costituirà la base dell’auspicato piano di prevenzione, tanto che i membri del gruppo di lavoro sono stati chiamati dal ministero per collaborare alla sua redazione. L’esperienza accumulata negli anni dai bagnini professionali, dai medici di pronto intervento, dal mondo della ricerca e dalle capitanerie di porto, ha consentito una rapida redazione del rapporto che contiene gran parte di quanto richiesto dall’Oms. Al contrario, per le acque interne il lavoro da fare è ancora tanto, poiché le regioni, competenti in materia, ben poco hanno fatto se non installare qualche cartello di divieto di balneazione, restrizione che riguarderebbe comunque quasi tutti i corsi d’acqua italiani. Non è detto che l’esistenza del piano avrebbe salvato i tre ragazzi nel Natisone, ma certamente la sua applicazione consentirà una migliore gestione del rischio.

Rimanendo sui fiumi, i 79 annegamenti all’anno non sono equamente distribuiti fra le regioni d’Italia, ma vi è una forte concentrazione in quelle settentrionali, con il triste record della Lombardia, con 39 decessi all’anno, seguita dal Veneto con 11 e dal Piemonte con 8. La maggior presenza di fiumi, laghi e canali spiega in parte questi dati, ma è anche la distanza dal mare che spinge, chi non può permettersi un lungo viaggio per raggiungere una spiaggia, a gettarsi nelle acque più vicine per trovare refrigerio nelle giornate estive: e già da questo si può intuire chi è che muore nei fiumi.

Si hanno casi di pescatori dilettanti, che fra l’altro entrano spesso in acqua con stivaloni e vestiti non certo progettati per nuotare; altri di automobilisti che tentano il guado di un ruscello non pensando che le automobili, pur di metallo, galleggiano nell’acqua. Ma i veri bagnanti nei fiumi e canali sono in genere giovani, che spesso scelgono queste acque perché vicine a casa e con accesso gratuito, anche se proibito. Questo porta al dato sorprendente rilevato da Pezzini: il 64% degli annegati nei fiumi, il 54% nei laghi e il 46% nei canali è composto da immigrati, anche di seconda generazione. E se consideriamo che gli immigrati in Italia, nonostante quello che dicono alcuni, costituiscono una minoranza (circa il 10% compresi i non registrati), il rischio a cui sono esposti risulta decisamente elevato. Scrive Pezzini nel rapporto, che molti sono africani (della fascia equatoriale o magrebini), ma anche indiani, cinesi, ecuadoregni o dell’Est Europa (soprattutto rumeni) e l’evento recente lo conferma. Aggiunge che in genere provengono da zone continentali lontane dal mare e, a differenza degli italiani, hanno l’abitudine di fare il bagno nei corsi d’acqua, nei bacini artificiali, nelle cave, negli stagni, nei canali. Gli italiani hanno perso questa abitudine (ancora fiorente negli anni Sessanta) e solo negli ultimi anni stanno recuperando alcune sponde che si prestano in qualche modo a far da succedaneo delle spiagge marine.

L’89% degli immigrati che annegano non sa nuotare, mentre questa percentuale scende al 7% per gli italiani, che muoiono prevalentemente per malori o incidenti acquatici. Il riscaldamento globale renderà le nostri estate sempre più afose, e sempre più persone arriveranno in Italia da paesi in cui il nuotare non è una capacità diffusa. Il piano per la riduzione degli annegamenti non ce lo impone solo l’Oms, ma anche, pur volendo dimenticare la non più di moda solidarietà umana, una semplice ed egoistica considerazione sugli esorbitanti costi sanitari e assistenziali degli annegamenti, dei quasi annegamenti e di tutti gli altri incidenti che si verificano durante la balneazione.