Non più solo auto elettriche a partire dal 2035, ma anche a combustione interna. Vittoria, pensava il governo italiano. Ma l’esultanza si è trasformata in un boccone amaro: si possono usare solo i carburanti sintetici verdi, cioè fatti combinando chimicamente idrogeno prodotto con fonti rinnovabili e carbonio rinnovabile, non i biocarburanti cioè quelli ottenuti dalla trasformazione di materiale organico.

Uno smacco, perché per i primi la Germania si sta preparando mentre l’Italia no. Per questo l’Italia si opporrà alla decisione della Commissione.

Chi ha ragione, la Commissione Europea o il governo italiano? Cosa hanno che non va i biocarburanti? Vediamo.
I biocarburanti si possono ottenere sia da scarti e rifiuti organici sia da piantagioni dedicate, coltivando piante da cui si può estrarre olio da trasformare in carburante, le cosiddette piantagioni energetiche. Sull’utilizzo degli scarti e dei rifiuti organici c’è poco da obiettare, è certamente una pratica sostenibile, ma purtroppo le quantità in gioco sono molto modeste, per cui la produzione di biocarburanti è di fatto affidata alle piantagioni energetiche. Queste coltivazioni non sono una novità: nel 2020 nell’Europa dei 27 e nel Regno Unito complessivamente sono stati consumati circa 2,5 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio sotto forma di bioetanolo e ben 8,3 come biodiesel, prodotti con biomasse coltivate.

E che c’è di male in questo? La risposta viene da uno studio (The Carbon and Food Opportunity Costs of Biofuels in the EU27 plus the UK) eseguito da un centro di ricerca tedesco, in cui si evidenzia che questi volumi di consumo sono stati accompagnati da un fabbisogno di terreno pari a 5,27 milioni di ettari (più del doppio dell’intera Sicilia), in gran parte sottratti alla produzione di cibo. Se sulla stessa superficie si coltivasse grano, per esempio, se ne produrrebbero 31 milioni di tonnellate, con un contenuto calorico sufficiente ad alimentare 120 milioni di persone.

Se invece gli stessi autoveicoli che usano tutto questo biocarburante fossero elettrici, a parità di percorrenza richiederebbero, per alimentarli, una superficie di impianti fotovoltaici a terra pari a soli 0,13 milioni di ettari, quaranta volte di meno. Una bella differenza.

Ma c’è dell’altro. Un terreno incolto, con vegetazione naturale, intrappola più CO2 di quanta se ne risparmia se invece lo si coltiva per fare biocombustibili usati al posto dei combustibili fossili. Questo per dire che le piantagioni energetiche che vanno sorgendo nei paesi in via di sviluppo in terreni prima occupati prevalentemente da vegetazione spontanea, finiscono per contribuire all’aumento delle emissioni, non alla loro diminuzione. Quindi, il danno è assicurato: o sottraggono cibo se sostituiscono coltivazioni alimentari o aggiungono CO2 se occupano aree naturali.

E non finisce qui, dice ancora lo studio. C’è anche il grande danno inferto alla biodiversità, a causa dei fertilizzanti azotati e dei fosfati che inducono l’eutrofizzazione di corsi e specchi d’acqua, e soprattutto a causa dei pesticidi, che sono letali per molti insetti (particolarmente critico per la produzione agricola è l’impatto sugli insetti impollinatori, come le api).
Ad andare giù duro contro le coltivazioni volte alla produzione di biocarburante contribuisce anche l’Agenzia Internazionale dell’Energia, con uno studio (Clean energy can help to ease the water crisis) in cui si mostra che in uno scenario mondiale che punta alla condizione emissioni nette zero al 2050, il ricorso ai biocarburanti implica già al 2030 un consumo di acqua pari a oltre la metà di quello di tutto il settore energia.

Questo avviene in un mondo in cui circa un quarto della popolazione mondiale non ha accesso all’acqua potabile e la desertificazione avanza a causa del cambiamento climatico.

Ma c’è dell’altro. Se dovessimo continuare a costruire auto a combustione interna e le alimentassimo con biocarburanti, dovremmo aumentarne fortemente la produzione e quindi dedicare grandissime estensioni di terreno alle piantagioni energetiche, oltre a contribuire comunque al cambiamento climatico perché non possono dirsi a emissioni zero. E dove conviene farle, le piantagioni? Certo non in Italia, dobbiamo giustamente proteggere la sovranità alimentare. Nei paesi in via di sviluppo, naturalmente. Si comprano grandissime estensioni di terreno in Africa, per esempio, e si sostituisce la vegetazione locale con una monocultura di palma da olio, di ricino, o altro. Il risultato è l’espropriazione e l’espulsione dei contadini e dei pastori. E così tanti che non hanno più cosa mangiare tentano il tutto per tutto rischiando la vita nel Mediterraneo. E questi interventi sono pure spacciati per «aiuti». È in questo modo che si aiutano a casa loro?

E allora, perché il governo si ostina a perorare la causa dei biocarburanti? Non è utile per la lotta contro il cambiamento climatico, né per il contrasto all’immigrazione, che pure gli sta tanto a cuore. Ed è pure una battaglia di retroguardia, sul piano tecnologico, oltre a renderci dipendenti da altri paesi, quelli in cui andiamo a fare le piantagioni energetiche. Perché non spingere verso la produzione di combustibili di sintesi verdi, come fa la Germania? E poi, perché proseguire sulla linea Draghi impegnandosi a sostituire pari pari il gas russo con quello proveniente da altre parti del mondo invece di fare di tutto per sostituirne il più possibile con le fonti rinnovabili, una produzione domestica?

Strana contraddizione: sovranità alimentare sì e sovranità energetica no. Chissà cui prodest.