Il 13 gennaio del 1972 quando Aretha Franklin appare nella New Temple Missionary Battle, la chiesa nel quartiere african american di Watts, a Los Angeles, ha ventinove anni ed è una star con una carriera di hit internazionali e brani come I Never Loved a Man the Way I Love You, (You make me feel like), A Natural Woman, I Say a Little Prayer. Indossa una lunga tunica bianca, si siede al pianoforte, socchiude gli occhi e canta. È l’inizio di una sessione divenuta leggendaria, due notti nelle quali «the Queen of Soul» registra live Amazing Grace, uno dei suoi più grandi successi – con milioni di copie vendute in tutto il mondo – che nasceva dal desiderio di ritornare al gospel, le sue radici, la musica cantata da bambina nella sala da pranzo di casa, ascoltando la voce di Clara Ward o di Mahalia Jackson, e quella del padre, il reverendo C.L. Franklin, potente predicatore e a sua volta voce trascinante accanto nelle sue battaglie a Martin Luther King – che era stato assassinato quattro anni prima.

Insieme alla Regina ci sono, appunto, il reverendo Cleveland, che guida i passaggi da un brano all’altro, Alexander Hamilton alla direzione del Southern California Gospel Community Choir, la sua band, i fedeli e alcuni special guest tra cui Mick Jagger e Charlie Watts che erano a Los Angeles per registrare Exile on Main Street.

LA WARNER aveva commissionato le riprese a Sidney Pollack che adorava Franklin, l’idea era di realizzare una sorta di «Making of» della registrazione da far uscire poi col disco. Pollack aveva disseminato cinque macchine da presa nella sala per catturare l’evento da ogni prospettiva, il palco, davanti e dietro, il pubblico, i dettagli e l’insieme; però succede qualcosa, un errore tecnico di sincronizzazione tra suono e immagine – sembra che il Nagra girasse troppo piano rispetto alle macchine da presa -. e le oltre venti ore di girato divengono inutilizzabili: delle prove, di cui si vedono alcuni frammenti e della «performance» che sarà poi il disco non si sente nulla.

Dopo mesi di tentativi inutili montatori e studio si arrendono, il materiale viene archiviato e rimane lì per oltre quarant’anni, finché Alan Elliott, produttore musicale non riacquista i diritti del girato da Warner e grazie alle nuove tecnologie digitali riesce a recuperare la voce di quella registrazione in cui Franklin passa da classici del gospel come Mary Don’t You Weep e Precious Memories, a una versione di 11 minuti di Amazing Grace, la folgorazione dello schiavista quando comprende cosa significa la condizione della schiavitù che infligge a altri esseri umani.

Intanto la sala si alza, tutti ballano, piangono cadono in trance, come la madre di Aretha mentre la sua voce fa vibrare Amazing Grace, gridano, battono le mani. Il reverendo Jackson si copre il volto e abbandona il pianoforte travolto dall’emozione. In prima fila il padre di Aretha sale sul palco per il suo «sermone» sul finale di Never Grow Old e asciuga con delicatezza il volto pieno di sudore della figlia che continua a cantare senza quasi accorgersi di quanto accade…

UNA GIOIA e una meraviglia ma Amazing Grace – il film – sembra destinato a entrare nella lista delle opere maledette – come Cocksucker Blues, girato lo stesso anno, i Rolling Stones di Robert Frank. La stessa Franklin lo blocca, è arrabbiata perché nessuno l’aveva avvisata e di quel vecchio film non vuole più saperne, inizia una battaglia giudiziaria che si conclude con una nuova archiviazione della pellicola. Finché alla morte di Franklin la nipote invita Elliott ai funerali a Detroit e poi lo ricontatta per parlare del film.

Viene organizzata una proiezione davanti l’intera famiglia che ne rimane conquistata e finalmente Amazing Grace può arrivare in sala, con la prima a a New York, al festival Doc NYC. E meno male perché Amazing Grace (fuori concorso) è un film magnifico le cui immagini all’origine in 16 millimetri non restituiscono soltanto la potenza di una voce, e il suo incanto. Pollack, che vediamo in sala dirigere la propria «orchestra» riesce a cogliere quei dettagli che ne ricompongono la traiettorie, i frammenti, l’emozione di un evento vissuto collettivamente – pensiamo a Woodstock filmato da Pennebaker – nel quale ogni brano libera l’esplosione di un sentimento condiviso.

SI BALLA e si piange davanti a questo film sentendosi lì, in quella chiesa, davanti al viso da ragazzina della Regina coperto di infinite gocce di sudore mentre la sua voce risuona in ogni spazio, rompendo il confine tra pubblico e intimo. Le mani di Jefferson prendono quelle di Franklin di nascosto, le lacrime corrono sul viso di Clara Wards, Mick Jagger scandisce il ritmo, una ragazza quando si accorge della macchina da presa sorride.

E ANCHE NOI, il pubblico, viviamo in diretta la stessa emozione questa messa/concerto di estasi, lacrime, gioia, energia che quelle immagini a volte sgranate tra zoom e impacci – gli operatori meno invisibili di Whitehead ai tempi di Wholly Communion entrano a volte nella traiettoria della musicista ma poco importa perché Pollack si è posto la questione di come filmare la musica. E a partire da questo le sue immagini ci fanno vivere ciò che la voce provoca intorno a sé – il montaggio è di Jeff Buchanan collaboratore di Spike Jonze e di Michel Gondry. La voce di una seduzione, della memoria di una comunità,di un sentimento che commuove senza spiegazioni. Della speranza nel futuro e della la possibilità di inventarlo, del tempo di una terra in cui non invecchieremo mai.