«Penso che la forza dell’arte sia quella di portarci in un posto in cui non ci sentiamo più così sicuri. E poi allora, forse, si può iniziare ad essere felici». Un’idea, quella espressa da Lázaro Gabino Rodríguez, che è al centro del percorso della sua compagnia Lagartijas Tiradas al Sol, progetto ormai quasi ventennale fondato a Città del Messico da Rodríguez e Luisa Pardo.

A Romaeuropa festival presentano due lavori molto diversi, stasera sarà la volta di Lázaro, nato come esperimento su Zoom durante la pandemia, debutta ora in una versione teatrale inedita. Realizzato in risposta ad un invito della regista argentina Lola Arìas, Lázaro è la storia del mutamento, realmente avvenuto, dell’attore Rodríguez che ha scelto ad un certo punto della sua vita e carriera di modificare le fattezze del suo volto e di cambiare nome.

Lo spettacolo getta lo sguardo in un abisso – la difficoltà dell’accettarsi fino in fondo, ma anche il confine dell’identità dell’attore che si assottiglia sempre più, che finisce per assomigliare ai propri personaggi e che spinge per riconoscersi in qualcosa di nuovo.

Un tema presente anche in Tiburón, lo spettacolo che la compagnia proporrà giovedì 6 ottobre. Qui è la figura dell’evangelista José María de Barahona, sbarcato sull’isola messicana Tiburón nel XVI secolo, a fondersi con un presunto viaggio intrapreso da Lázaro Gabino Rodríguez, solo in scena, e con le numerose fonti letterarie da cui la compagnia ha attinto. Un viaggio lirico che forza i limiti del fattuale interrogando però il passato e il presente coloniale del Messico.

Il vostro lavoro interroga il confine tra realtà e finzione, è un interesse che vi è sempre appartenuto?

Abbiamo iniziato con un approccio molto autobiografico, insoddisfatti come eravamo delle forme più tradizionali. Presto però abbiamo iniziato a ragionare sulla finzione che accompagna la parola teatro, e sull’impatto limitato che il nostro lavoro aveva sulla realtà. Abbiamo allora capito che forse non era giusto, e nemmeno desiderabile, sfuggire dalla dimensione di finzione a cui il teatro è legato: dovevamo abbracciarla per realizzare qualcosa che sarebbe stato impossibile con altri mezzi.

Nei vostri spettacoli è molto presente una dimensione legata al mistero, talvolta perfino destabilizzante.

La realtà oggi viene fin troppo spiegata, pensiamo di poter capire tutto invece c’è bisogno di uno spazio per lo sconosciuto. Lì può inserirsi il teatro. In Tiburón, ad esempio, ad un certo punto si dovrebbe insinuare il dubbio: sono veramente stato sull’isola, come sostengo? L’isola esiste? Il missionario Barahona, esiste? Non scordiamo di vivere in un periodo complesso in cui c’è un movimento, a livello mondiale, di individui e politici che non hanno alcun rispetto per la realtà. Ma allo stesso tempo, penso che ciò non deve spingerci a pensare che tutto ciò che non è vero è cattivo. Bisogna reclamare uno spazio per sospendere la credenza, per la speculazione e l’immaginazione.

«Tiburón»

Da tempo siete impegnati in un progetto articolato con cui interrogate il concetto di democrazia in Messico. Com’è nato?

Ci sono molte cose che non funzionano nel nostro Paese: la disuguaglianza sociale, la violenza contro le donne, le uccisioni dei giornalisti. Ma allo stesso tempo, altre nazioni del Centro America hanno condizioni ben peggiori. Volevamo quindi rispondere alla domanda sulla democrazia in Messico in maniera non superficiale o scontata. Abbiamo pensato di fare 32 lavori, come le 32 regioni messicane, ognuna con un tema: nello spettacolo Tijuana ci interroghiamo su cosa significhi vivere con il salario minimo, Veracruz è sulla libertà di espressione. Finora ne abbiamo realizzati 8, Tiburón si chiede come il passato coloniale si manifesti nella società di oggi, in particolare su quelle persone che vivono in modo diverso, con altre radici culturali, che non parlano spagnolo e che vengono come «intrappolate» in Messico.

In «Tiburón» infatti problematizzate il processo di colonizzazione e l’immagine tipica della «conquista».

Credo che una delle cose che faccia più male oggi sia proprio questo approccio banalizzante rispetto a quello che è avvenuto. C’è stato un genocidio, un disastro umanitario, questo è indubbio. Ma è avvenuto all’interno di rapporti complessi. Ancora oggi, noi e gli altri gruppi teatrali viviamo per lo più nelle città, parliamo spagnolo, abbiamo quindi una posizione nei confronti delle culture indigene che è problematica. Avere un passaporto messicano non significa comprendere le differenze che ci sono all’interno del nostro Paese e non basta attaccare gli spagnoli per quanto hanno fatto secoli fa, ci sono tante cose da indagare nell’attualità, ed era quello che ci interessava fare.

La vostra idea di scena appare come il risultato di un approccio artigianale al teatro, è così?

Abbiamo sempre voluto contare sulle nostre forze e capacità, puntando magari ad acquistare i materiali che ci servivano a basso prezzo, sia per non creare ulteriori oggetti oltre ai troppi che esistono già, sia per la fragile economia degli artisti in Messico. Sono questi parametri che hanno portato alla nostra estetica.

Qual è attualmente la condizione della scena teatrale in Messico?

Noi teatranti ci lamentiamo sempre, ma credo sia il Paese del Sud America che più offre supporto agli artisti. Il governo che abbiamo ora è piuttosto strano, dice di essere di sinistra ma è contro la cultura, l’arte e le diversità, stiamo attraversando un periodo di crisi ma c’è comunque un’infrastruttura istituzionale. Noi siamo una compagnia indipendente, non riceviamo fondi dal governo, abbiamo sempre preferito buttarci e iniziare a lavorare piuttosto che aspettare di trovare finanziamenti.