Era l’estate del 2017 quando Labib Rammo, sua moglie e i suoi sei figli divennero noti in tutto l’Iraq come la prima famiglia  di fede cristiana a rientrare nella cittadina di Karamles. Un ritorno che da un lato simboleggiava la sconfitta, almeno militare, di Daesh (l’Isis) che aveva seminato morte e distruzione nella piana di Ninive e nel territorio circostante, e dall’altro segnalava un nuovo inizio per i Caldei, una delle comunità cristiane più antiche del mondo ed erede dell’arcaica civiltà assira. A oltre tre anni di distanza quella speranza e in buona parte svanita. Papa Bergoglio in Iraq non troverà solo un paese instabile, piegato sotto il peso della povertà, della crisi economica, delle divisioni settarie e vittima di importanti interessi geopolitici. Incontrerà anche una comunità cristiana fragile, indecisa se restare o abbandonare la terra in cui affondano le radici della sua antica presenza.

Padre Thabet, il parroco di Karamles, nel 2014 restò fintanto che gli fu possibile mentre i jihadisti di Daesh avanzavano verso la cittadina. Da quando vi è tornato, dice al manifesto, ha capito che il suo posto sarà per sempre a Karamles. Ma, riconosce, «non è facile, siamo iracheni viviamo gli enormi problemi del nostro popolo e la nostra vita quotidiana è fatta di sfide continue ed ostacoli». Tanti di quelli che scapparono dalla città non sono più tornati. «Hanno fatto ritorno solo 345 delle 820 famiglie scappate via – prosegue padre Thabet – soprattutto i giovani fanno fatica a vedere il loro futuro in questa città». La sicurezza, ci spiega, resta un punto essenziale «e in questa situazione economica è arduo fare programmi, non a caso restano lontani (da Karamles) proprio i cittadini più qualificati ed istruiti». Questo quadro lo fanno gli abitanti degli altri centri della piana di Ninive. Ricostruire dopo le distruzioni causate dai jihadisti e dalla guerra è stata la parte più facile. Sono risorte le chiese distrutte con l’aiuto del Vaticano e delle donazioni internazionali. Sono state ricostruite anche tante case – a Karamles è tornato in piedi il 60% delle abitazioni civili – ma, conclude padre Thabet, «il tessuto economico e sociale resta sfilacciato e non vediamo soluzioni a breve termine».

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Nel 1987 i cristiani in Iraq erano un milione e 400 mila, l’8 per cento della popolazione. Oggi sono appena l’1 per cento. Già dopo l’invasione anglo-americana dell’Iraq nel 2003, la caduta di Saddam Hussein e l’inizio del terrorismo jihadista sunnita contro sciiti, cristiani e altre comunità etniche e religiose, migliaia di Caldei assieme a decine di migliaia di iracheni musulmani, si rifugiarono in Siria e Giordania. In parte fecero ritorno in patria, invece chi ne ebbe la possibilità scelse di andare negli Usa, in Europa e in altri paesi. Il momento più drammatico è stato dopo lo storico discorso nella moschea di Mosul del «califfo» Abu Baker Al Baghdadi. I miliziani dell’Isis presero il controllo del Sinjar e della Piana di Ninive e nella notte fra il 6 e il 7 agosto e almeno 150mila cristiani fuggirono in fretta e furia verso il Kurdistan iracheno. Una sorte toccata, in forme persino più tragiche, ad altre comunità ed è tristemente nota quella subita dagli uomini e soprattutto delle donne Yazidi. Poi nel 2016 i centri abitati cristiani – tra i quali Karamles e Qaraqosh – furono liberati uno ad uno dalle truppe governative, dalle milizie sciite e dai peshmerga curdi.

Oggi non pochi dei profughi tornati a casa dicono di sognare la costituzione nella piana di Ninive di una sorta di provincia autonoma per cristiani e yazidi, difesa da una milizia locale simile a quelle sciite. Un Cristianistan che non trova l’appoggio del patriarcato caldeo che lo ritiene un errore sotto tutti i punti di vista. Questa soluzione inoltre rappresenterebbe un ulteriore fallimento per l’Iraq, già figlio malato del mosaico etnico-religioso creato in Medio oriente dal colonialismo e dagli accordi anglo-francesi Sykes-Picot per la spartizione dell’Impero Ottomano.

Rifat Bader fa da collante tra i cristiani iracheni rientrati nelle loro case e quelli in Giordania. Ci spiega che le sofferenze, i drammi degli ultimi trent’anni, dalla prima Guerra del Golfo fino all’Isis, hanno rinsaldato l’attaccamento dei fedeli alle istituzioni cristiane. «La visita di papa Francesco è molto attesa, non solo nella piana di Ninive» ci dice «il Santo Padre rappresenta una speranza per i cristiani e per tutti gli iracheni colpiti da guerre, conflitti, attentati e da una crisi economica aggravata dalla pandemia. L’Iraq e il suo popolo hanno un bisogno enorme di ascoltare parole di speranza e compassione».