L’anomalia della Guardia di Finanza, con i suoi compiti di «prevenzione, ricerca e denunzia» in «materia economica e finanziaria», dal 1906 inquadrata nell’ordinamento militare; il lungo e difficile cammino del Movimento dei Finanzieri Democratici, con la sua battaglia per la democratizzazione e la smilitarizzazione della stessa. Sono i temi del libro di Claudio Madricardo, Democrazia indivisa – Il 68 del Movimento dei finanzieri Democratici, dato alle stampe da Ytali (si trova anche su ytali.com ed è acquistabile sulle principali piattaforme librarie), casa editrice che pubblica l’omonima rivista online diretta da Guido Moltedo.

Nel volume è sottolineato come negli ultimi decenni molte cose, anche grazie alle lotte del Movimento, siano cambiate. Ma, se da un lato non si può più parlare di «clima feudale» a proposito dei rapporti gerarchici e della disciplina all’interno del Corpo, dall’altro rimane irrisolta la questione di fondo su cui lo stesso Movimento ha concentrato le sue energie fin dalla sua nascita: l’incongrua relazione tra la «struttura militare della Finanza» e il suo fine istituzionale.

LA STORIA. Correva l’anno 1976. A Venezia spunta un volantino nel quale si denuncia il disagio e lo «stato di repressione» che allora si viveva nella Guardia di Finanza. In pratica, l’atto di fondazione del Movimento, l’inizio di una vicenda che, tra alti e bassi, arriva fino ai giorni nostri. L’autore ricorda, anche attraverso la testimonianza di alcuni protagonisti, come quell’episodio fosse stato seguito, negli anni immediatamente successivi, da un inasprimento del clima di repressione all’interno delle caserme ma anche dall’apertura di un dibattito pubblico sulla questione, di un confronto proficuo tra il Movimento da un lato e il sindacato confederale ed i partiti di sinistra – e non solo – dall’altro.

Ad un certo punto sembrò che l’obiettivo della smilitarizzazione fosse a portata di mano, ma col rapimento e l’uccisione di Aldo Moro tutto si fermò. Prevalse la paura, parlare di «sindacalizzazione» delle forze armate non era più conveniente dal punto di vista politico. Si chiudeva un ciclo. La «parabola politica aperta dal ’68», quella «al cui culmine era sbocciato il Movimento dei Finanzieri Democratici», veniva «a chiudersi irrimediabilmente già nell’ultima parte degli anni Settanta, con il rapimento di Aldo Moro per mano delle sedicenti Brigate Rosse», scrive l’autore nel finale del volume.

ANCHE IL PCI si distinse per troppo tatticismo e timidezza sulla questione. Nel libro viene ricordato come il partito di Berlinguer avesse giudicato «pericolosa e avventurista» la manifestazione dei «tremila militari in divisa» del 27 marzo 1976, che invece aveva avuto il sostegno del Psi, dei radicali e della Nuova Sinistra, e quanto timida si rivelerà due anni dopo la legge sulla rappresentanza militare che lo stesso Pci blindò, con la Democrazia cristiana, nel suo iter parlamentare, impedendo che passassero le proposte dei socialisti e dei radicali sulla piena sindacalizzazione delle forze armate.
Ma tant’è.

Per quanto ancora ci sia molto da fare e da rivendicare, alcuni traguardi sono stati comunque conseguiti. L’11 aprile del 2018 la Consulta ha finalmente abrogato la norma che vietava la sindacalizzazione dei militari. Capitolo chiuso? Non proprio. La partita ora si è spostata in parlamento, che dovrà legiferare in materia. «Le forze più retrive di questo Paese – ha scritto di recente Andrea Leccese, presidente del SIM della Guardia di Finanza – si sono mobilitate per sterilizzare la storica sentenza della Corte. Si vogliono mettere i nuovi sindacati sotto il controllo dei vertici militari». La lotta continua.