Su quella spiaggia che ha preso forma nel bel mezzo di un hangar della Marina militare di Venezia, in una zona semisconosciuta dell’Arsenale, viaggiano nell’aria – insieme alle canzoni d’opera – sgradevoli ricordi d’infanzia come il pesce affumicato della nonna che piomba a tavola per colazione, le malinconie di una coppia costretta a un distacco, l’angoscia dell’ossessionato dal lavoro e quella del metodico spalmatore della crema anti-bruciature. In fondo, il sole può far girare la testa. A cantare sono i bagnanti veri, sdraiati sugli asciugamani, volontari che si daranno il cambio per resistere fino all’autunno.

È QUESTO IL CONTESTO brechtiano e spaesante (la vita dei vacanzieri si osserva dall’alto, affacciati a balaustra di una sorta di panopticon teatrale) con cui il padiglione lituano accoglie i visitatori della 58/a Biennale d’arte di Venezia, aggiudicandosi – per la sua originalità e per il dialogo aperto con la geografia della città lagunare – il Leone d’oro della giuria. Un premio prevedibile quello assegnato a Sun & Sea nato dal comune lavoro di Rugile Barzdziukaite (filmmaker), Vaiva Grainyte (poeta) e Lina Lapelyte (artista e musicista), per la cura dell’italiana Lucia Pietroiusti. Intuibile per la forza del progetto così fuori norma e per l’idea esistenziale che passa in quei microgesti e microeventi: sono gli ingredienti, spesso  condivisi, su cui si costruisce ognuno la propria vita.

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A CONTROBILANCIARE la «solarità» accecante dell’opera totale lituana – paese che si prepara ad accogliere la Biennale di Kaunas dal 7 giugno, dal titolo After leaving | Before arriving – ci pensa il cupo presepe a scala umana del padiglione belga, conquistando una menzione speciale.
Jos de gruyter & Harald Thys (curatrice Anne Claire Schmitz) con una sensibilità fiamminga venata di humor nero creano una serie di apparizioni: un circo di freaks, abitanti del loro Mondo Cane. Si va dalla donna-topo portatrice di morte e disgrazia a Wollemenger, uomo della Stasi fino al pazzo rimasto bambino e all’arrotino di Wexford. Lui fischietta, sia mentre è al lavoro, puntiglioso, sia di notte quando uccide le sue vittime.

DAGLI UNIVERSI della finzione e delle quinte teatrali che rimandano in modo inquietante alla realtà si passa in strada con un’altra partecipazione «in gold»: l’artista afroamericano Arthur Jafa: il suo film The White Album è un album sentimentale e degli affetti che s’interroga anche sulle discriminazioni razziali. «Le cose a cui aspiro – afferma Jafa – bellezza, complessità e incarnazione della blackness non sono semplici da raggiungere perché la blackness presuppone una certa assenza della forma o, forse, un rapporto inquieto».

ARGENTO invece per la cipriota Haris Epaminonda: è piaciuto alla giuria il suo affondo sul desiderio inafferabile d’amore sulla scia della letteratura (Bioy Casares) e dell’arte classica, mentre le due menzioni speciali toccano il muro dei femminicidi di Ciudad Juárez eretto dalla messicana Teresa Margolles (che ha transitato già in molti musei) e le «vene» in cui scorre la linfa coloniale della nigeriana di Otobong Nkanga.
Resta fuori il bellissimo padiglione cileno di Voluspa Jarpa che riprende il filo della storia dalle esposizioni universali con gli zoo umani per raccontare l’egemonia malata di un’Europa voyeuristica, che si espande anche tramite le sue stesse stragi interne. Mentre il Venezuela non è proprio pervenuto in Laguna. Imballaggi e pezzi di ferraglia occupano una architettura rimasta tristemente vuota e abbandonata, metafora del bivio politico e sociale di un paese in emergenza.