Fra le fermate della metro di Cordusio e Duomo c’è un sottopasso. Quasi nessuno lo utilizza. Lo costeggiano vetrine di negozi sfitti da tempo immemorabile. La spettralità che durante le pandemia ci siamo abituati ad associare agli spazi pubblici apparteneva da tempo a quei corridoi. Tuttavia, in occasione di Book city, l’ultima «in presenza», vi si poteva notare un’insolita animazione.

IN UNO DEI NEGOZI era stata allestita L’edicola che non c’è, su iniziativa di Moicana, il centro studi sulle controculture ideato da Nicola del Corno e Marco Philopat. Sugli scaffali, realizzati a partire da un progetto-istallazione di Joykix, si trovavano esemplari di riviste underground milanesi prodotte dagli anni Sessanta a oggi. Agli originali si affiancavano le riproduzioni, per dare modo a chi passava non solo di guardare ma anche di sfogliare, compulsare, leggere. A orari fissi, poi, partiva la discussione, attraverso le testimonianze di coloro che di quelle esperienze editoriali erano stati protagonisti.

All’evento si è affiancato un lavoro di digitalizzazione, per mettere a disposizione i materiali raccolti, con l’auspicio che l’archivio possa ampliarsi andando oltre la dimensione milanese ed entrando in risonanza con esperienze come la Fondazione Echaurren Salaris (si veda il manifesto del 14 maggio).

DOPO UN PAIO DI ANNI esce anche un libro: L’edicola che non c’è. La stampa underground a Milano (Agenzia X, pp. 224, euro 15). Il volume si struttura attorno a uno scarto generazionale: a scrivere sono autori che parlano di riviste e fanzine uscite, in genere, quando non erano ancora nati. Si tratta sensibilità diverse – militanti, artistiche, storiografiche – aggregatesi intorno all’allestimento della mostra e alle interazioni che la hanno accompagnata. Da qui uno sguardo particolare, distanziato, esente da nostalgia e selettivamente curioso rispetto a forme e contenuti che hanno caratterizzano la stampa underground milanese.

I DIVERSI CONTRIBUTI cercano di restituire un quadro esauriente delle realizzazioni ascrivibili all’ambito sottoculturale. L’attenzione, però, inevitabilmente tende a soffermarsi sulle riviste che hanno lascito il segno.

L’ANTEFATTO non può essere che La zanzara, il giornale scolastico del Parini, i cui contenuti relativi alla sfera della sessualità e della soggettività femminile, nel 1966, suscitarono uno scandalo che segnalava l’aprirsi di una nuova epoca. La fase aurorale della controcultura è ben esemplificata dalle affinità e divergenza fra due riviste.

Da una parte un prodotto di strada come Mondo Beat (con le relative gemmazioni), realizzato da «scappati di casa» (letteralmente) che danno voce alle loro urgenze esistenziali e politiche tramite i mezzi a loro disposizione; dall’altra, nello stesso periodo, un oggetto meraviglioso come Pianeta fresco, rivista progettata da Fernanda Pivano ed Ettore Sottsass, con Allen Ginsberg come «direttore irresponsabile», che rielabora in maniera originale suggestioni psichedeliche provenienti da oltreoceano.

NEL DECENNIO SUCCESSIVO spiccano Re nudo, la controcultura che cerca di farsi canone politico, Rosso, che ibrida la rivista militante con la dimensione underground, L’erba voglio che, intorno alla figura di Elvio Fachinelli, cortocircuita saperi critici dissonanti e invenzione istituzionale. Si tratta di riviste che avranno un grosso impatto sul presente, non così un’Ambigua utopia, animata fra gli altri da Antonio Caronia, che, incentrata sull’immaginario fantascientifico sembra alludere a una sensibilità successiva, rivisitando criticamente i futuri passati nell’imminenza del no future.

L’attenzione nei confronti della fantascienza, nella declinazione cyberpunk, coniugata a una scommessa sugli scenari della rivoluzione digitale, caratterizzerà in seguito Decoder. Ci troviamo oltre la cesura degli anni Ottanta e Decoder appare come una sorta di sintesi del proliferare di fanzine, fra Diy punk e sfumature dark, che scandisce i tentativi di una nuova generazione di elaborare i propri canoni di dissidenza dopo l’esaurirsi del «lungo Sessantotto».

Al volgere del millennio interviene una nuova cesura: l’avvento del web e dei social media, spiazza il format della rivista cartacea. Si tratta della problematica che investe gli interventi focalizzati sulla produzione più recente. Se nel primo decennio degli Zero-zero si consuma anche in ambito underground, in termini non solo quantitativi, la fase più acuta di crisi della forma-rivista, a partire dagli anni Dieci, forse inaspettatamente, si manifestano tutti i segni di un ritorno del cartaceo sotto svariate forme.

Che si tratti di un semplice sussulto nostalgico oppure della definizione di un nuovo territorio, nell’ecologia dei media contemporanei, in cui trovi espressione la potenza di irritazione delle fanzine a venire è l’interrogativo finale che ci consegna L’edicola che non c’è.