È una sorta di gioco delle tre carte e delle tre “piazze”: a Kabul, in casa, i Talebani rafforzano l’apartheid di genere, inaspriscono la repressione e, su una collina intitolata a un eroe della resistenza ai britannici, innalzano il più grande bandierone dell’Emirato islamico mai visto nel Paese.

A Ginevra, nella ricca Europa, attraverso l’Onu battono cassa per affrontare la crisi umanitaria e, pur incassando pochi aiuti, incassano l’ennesima stoccata del ministro degli esteri russo, Sergei Lavrov: il guaio in Afghanistan l’ha fatto la Nato, la Nato deve tirar fuori i soldi.

A Tunxi, nella provincia orientale cinese di Anhui, il ministro di fatto degli Esteri, Amir Khan Muttaqi, viene accolto dall’inviato speciale cinese Yue Xiaoyong e si rivolge agli interlocutori regionali, rassicurandoli e garantendosi una pacca sulle spalle che equivale a un «proseguite così, noi ci siamo».

Tre piazze diverse, tre messaggi diversi che rischiano di andare in cortocircuito. La conferenza virtuale dei donatori, promossa dall’Onu in collaborazione con i governi di Germania, Qatar e Regno unito, si è tenuta ieri.

La posta in gioco era alta. L’Onu chiede da mesi 4,4 miliardi di dollari, la cifra più ingente mai chiesta per un solo Paese, per tamponare la crisi umanitaria in Afghanistan, tra le più gravi al mondo. Gli appelli si ripetono ogni settimana, ma la comunità internazionale, specie quella euro-atlantica, prende tempo, riluttante.

La cifra stanziata ieri alla conferenza internazionale di Ginevra appare bassa, inferiore alle aspettative dell’Onu e alla gravità della situazione: 2,4 miliardi di dollari.

Tutti i donatori chiedono garanzie. Non vogliono che i soldi finiscano ai Talebani. Che il 23 marzo hanno impedito il ritorno a scuola alle ragazze sopra 11 anni. Contravvenendo alle promesse fatte, condizionando la disponibilità dei donatori, già poco inclini a sborsare denari.

Una decisione dettata da dinamiche interne. Forse anche dalla convinzione di non avere così bisogno di Europa e Stati Uniti. Di potersi affidare ad altri interlocutori, più amichevoli, meno esigenti. Cina e Russia, per esempio.

Pechino e Mosca hanno pazientemente aspettato la sconfitta militare Usa dall’Afghanistan, coltivando rapporti con i Talebani. Ora si offrono come sponde diplomatico-commerciali. Chiedono stabilità, cooperazione nell’antiterrorismo. Non criticano i Talebani per la repressione interna e l’apartheid di genere.

Ma non sono neanche disposti a sostituirsi all’Occidente come garanti delle finanze afghane. Lo dimostra la dichiarazione di Lavrov.

D’altronde, quelle finanze in questi ultimi 20 anni sono state così dipendenti dall’Occidente da esserne ancora condizionate. Lo dimostra il caso degli assett della Banca centrale afghana, circa 9 miliardi di dollari, congelati tra Usa ed Europa.

Anche da quel congelamento, dall’interruzione dei fondi umanitari e allo sviluppo, dall’estensione di fatto delle sanzioni verso singoli esponenti talebani all’intero governo, deriva la crisi umanitaria, la radicale contrazione dell’economia.

L’aiuto umanitario è solo un palliativo: non può sostituire un’economia funzionante, oggi al collasso. Per questo l’associazione United Against Inhumanity chiede l’immediata creazione di un meccanismo di monitoraggio internazionale che consenta alla Banca centrale afghana di accedere a 150 milioni di dollari al mese presi dai propri assett e il trasferimento dei circa 8 miliardi di dollari in valuta locale già stampati in Polonia ma mai consegnati a Kabul. Per scongiurare una crisi chiamata umanitaria ma «creata totalmente dagli uomini».