«Ti saresti mai aspettato di vedere Cracovia così? Sembra Disneyland» dice Roman Polanski a Ryszard Horowitz attraversando il centro. Certo l’aspetto della città polacca è cambiato rispetto agli anni della Seconda guerra mondiale, il periodo che il cineasta e il fotografo ricordano camminando per le strade, andando a visitare i luoghi della loro infanzia. È questa memoria condivisa ad essere al centro del documentario di Mateusz Kudla e Anna Kokoszka-Romer, Hometown – La strada dei ricordi, film che si distingue dalla maggior parte delle opere incentrate sulla Shoah per un tratto sostanziale, la levità del tono e del procedere, dei passi e delle parole dei due artisti, che sfuggono dalla cupezza spesso associata a questa pagina di storia.
Eppure Polanski e Horowitz hanno vissuto il periodo più buio della persecuzione nazista nei confronti degli ebrei, e nelle loro storie se ne intrecciano molte altre. I genitori del regista deportati l’uno ad Auschwitz e l’altro a Mauthausen, quelli del fotografo salvi grazie all’iniziativa dell’industriale Schindler, raccontata nel celebre film di Spielberg.

IL PREGIO di Hometown è questo: mostrare come anche la barbarie più feroce si inserisce in un contesto di relazioni e di luoghi tutto umano. E forse talvolta dicono di più alcuni aneddoti piuttosto che la narrazione della storia tout court, nonostante i registi scelgano di inserire immagini di archivio che fanno da contraltare al frammentario procedere della coppia. D’altronde il legame tra cinema e ricordi è estremamente complesso, è Polanski ad affermarlo dicendo che non vorrebbe realizzare un film su quanto accaduto allora. Ricostruire artificialmente le strade, scegliere degli attori, sarebbe come tradire quei ricordi, sovrapporre loro un altro scopo. I due amici di infanzia più che testimoni sono come degli schermi che restituiscono l’aria di quel tempo, perché quelle ferite riguardano un periodo lontano e nel frattempo è successo di tutto – per Polanski, la grande carriera cinematografica che conosciamo condita dall’ingombrante carico di accuse e polemiche. Ma tutto questo è venuto dopo. Hometown torna all’infanzia – sarà vero poi che la vecchiaia e i primi anni di vita si toccano in diversi modi? – e lascia che siano i luoghi a far emergere i ricordi. Ad onor del vero, la regia di Kudla e Kokoszka-Romer non sente alcun richiamo del paesaggio, si concentra unicamente sui due protagonisti e sul loro scambio, trovando in quest’aspetto un limite ma anche un pregio: quello di non imporre uno svolgimento a tesi o ad effetto come talvolta questi lavori tendono a fare.
Le famiglie di Polanski e di Horowitz avevano un rapporto piuttosto diverso con l’ebraismo: non praticante quella del regista – che nel film non vede l’ora di uscire dalla sinagoga di Cracovia – piuttosto tradizionalista quella del fotografo.

MA SI SA, per chi perseguita tutto questo non fa differenza, si viene marchiati sulla base di un’appartenenza stabilita burocraticamente con un cognome, una provenienza, un documento. Fu così che Polanski e Horowitz si ritrovarono nel ghetto della città – «ad un certo punto capii che ci stavano murando dentro» dice il regista, che racconta anche come i bambini però scappavano alzando una rete, «rischiavo la mia vita per la mia passione per i francobolli». Nel ghetto si viveva, si suonava, salvo poi accorgersi che pian piano le persone scomparivano per «andare a lavorare a est». Così Polanski, ancora bambino (è nato nel 1933) rimane da solo in città ad affrontare quel terribile periodo, mentre Horowitz si ritrova ad Auschwitz, mostra oggi quel codice rimasto impresso sulla pelle. «L’essere umano non impara mai dalle tragedie» dice il fotografo, una riflessione alla quale siamo ormai purtroppo abituati. Hometown non ci insegnerà nulla di nuovo sulla tragedia della Shoah, ma mostra due uomini di successo fare i conti con qualcosa di più grande di loro, nelle tracce sempre più labili che rimangono nelle storie e nei luoghi.