In Francia, chi lavora nel cinema d’autore fa i conti con un piatto che si restringe ogni anno di più e che oggi rende difficile, se non impossibile, quello che fino a pochi anni fa era la norma. Il doppio lockdown non è arrivato come un fulmine a ciel sereno ma come una tempesta di sabbia dopo anni di siccità. Per capire cosa sta succedendo, abbiamo voluto parlare con sei lavoratori e lavoratrici dello spettacolo. A tutti abbiamo chiesto, semplicemente: che cosa fai in questi giorni?

CATHERINE BIZERN dirige dal 2018 il festival Cinéma du réel. Il suo è stato il primo festival internazionale ad essere investito dalla pandemia e a dover inventare sul momento un modo di esistere.
«L’anno passato, ho fatto lo struzzo. Ed in parte ha funzionato: sono riuscita a fare la serata d’apertura. Ma il giorno dopo abbiamo dovuto annullare tutti gli spettacoli e siamo passati online. Quest’anno abbiamo avuto il tempo di riflettere su cosa vuol dire preparare un festival smaterializzato – senza peraltro escludere la possibilità di avere le sale, alla quale non rinuncio per principio. Lavoriamo quindi ad un programma online che sia una sorta di copia esatta di quello in presenza. I film non saranno sempre disponibili, on demand, come ho visto fare altrove. Saranno ordinati in un percorso che comincia con il film di apertura, finisce con la chiusura, e che in mezzo propone una serie di eventi, di incontri, di appuntamenti effimeri. Tipico di un festival è che la sera si discute dei film visti quel giorno. Come un tempo, scendendo al bar o dal panettiere, si commentava quello che si era visto la sera prima alla televisione. Tutti avevano visto la stessa cosa. In fondo, vogliamo reinventare la televisione !».

 

SOPHIE LETOURNEUR ha girato alcuni piccoli gioielli, come «Roc» e «Canyon», «La vie au ranch», «Le Marin masqué». Il suo cinema, che riprende il testimone di Jacques Rozier, tribolazioni comprese, è in costante ricerca di nuovi modi d’essere. Il suo ultimo film, «Enorme», è uscito in sala durante l’estate, infilandosi tra Scilla e Cariddi.
«Sono stata contenta per Enorme. Oltre al Covid c’erano anche altre difficoltà. I distributori non erano molto convinti del film; poi il lockdown ha bloccato tutto e per un po’ non se n’è parlato. La stampa ha comunque potuto vederlo a maggio e le reazioni entusiaste della critica hanno finito per far breccia tra i distributori. Caso raro, il lockdown ha giocato a favore del film che ha potuto avere una bella uscita. Il fatto che non ci fossero film americani in quel momento ha aiutato. In questo periodo sto lavorando alla sceneggiatura di un nuovo film. È difficile avere finanziamenti.
Ma per me, stranamente, è un’occasione. Voglio tornare a fare dei film a bassissimo budget. Il prossimo, che sto scrivendo in questi giorni, lo farò con Emmanuel Chaumet di Ecce films – che è stato il mio primo produttore. Sarà un piccolo film, a metà tra finzione e documentario. Come piace a me. Lo gireremo in Italia, a Vulcano. Si chiamerà Viaggio in Italia».

MARCOS UZAL ha preso le redini dei «Cahiers du cinéma» l’anno scorso. Dal primo numero, la sua redazione ha dovuto affrontare una situazione inedita nella storia della rivista fondata da Bazin e Valcroze nel 1951: la chiusura delle sale.
«Continuiamo a fare i ’Cahiers’ ogni mese! Cercando di fare una rivista d’attualità, senza l’attualità. Ci manca il presente. E quindi siamo obbligati a inventarcene uno, partendo sempre da quello che c’è. Ma lavorando senza quella cornice che le uscite del mese impongono. Concretamente, nel numero di febbraio, che stiamo chiudendo proprio oggi, c’è uno speciale su Coppola. Il pretesto è il nuovo montaggio del Padrino parte terza e l’uscita in dvd di alcune pellicole sottostimate. Ci siamo aggrappati a questa piccola attualità e con un’intervista, qualche ricerca, dei testi… Ci abbiamo costruito sopra uno speciale. Cerchiamo di mantenere un taglio critico, anche se la situazione ci spinge ad avere uno sguardo restrospettivo. L’attualità di questi giorni è soprattutto politica. La seguiamo, ma solo dal punto di vista del cinema. E cerchiamo anche un altro respiro. Nel numero di febbraio ci sarà una tavola rotonda sul cinema di genere in Francia. È un soggetto scivoloso, che ritorna in continuazione, ma sul quale non si sa mai cosa dire… Vogliamo tentare di inquadrarlo. È un momento in cui abbiamo la libertà di porre delle domande che in genere non si ha mai il tempo di affrontare. Cerchiamo di approfittarne».

THOMAS ORDONNEAU in Francia è un nome che fa tutt’uno con quello della casa di distribuzione e di produzione Shellac – da lui stesso fondata nel 2002 e che da allora ha portato al cinema molti artisti emergenti, trai quali Miguel Gomes, Justine Triet, Serge Bozon. Shellac è anche un una sala, un luogo di ritrovo: il Gyptis a Marsiglia. Che cosa fa Shellac in questi giorni?
«La distribuzione è ferma, ovviamente. Le sale sono chiuse, compresa la nostra. Anche se ogni tanto facciamo alcune proiezioni «private», per non perdere la mano. Lavoriamo senza sosta ad alcune produzioni. Nella seconda parte del 2020, avevamo alcuni progetti che hanno girato nei festival e nei lab e che vogliamo portare avanti. E poi c’è il ’Club’: una piattaforma che abbiamo appena lanciato sul nostro sito. Già da due anni avevamo in cantiere un progetto per il nostro catalogo in Vod, che si è sviluppato in qualcosa di più ambizioso, con l’obiettivo di fare da interfaccia all’insieme dei nostri mezzi di distribuzione : la sala, il dvd, la vod e ora la svod. L’idea del ’Club’ è quella di uno strumento capace di accompagnare al meglio i cineasti con i quali lavoriamo e che il resto del mercato ha sempre meno voglia di distribuire. Noi crediamo ancora che per il cinema indipendente e singolare ci sia un pubblico e quindi anche un mercato – perché non siamo un’opera pia ma una impresa commerciale. Crediamo però che bisogna trovare un nuovo modo di raggiungere quel pubblico».

VIVIANA ANDRIANI è italiana. Vive e lavora a Parigi. È addetta stampa, o, come si dice qui, attachée de presse.
«Faccio parte di quelli che sono stati travolti in pieno dalla chiusura dei luoghi di cultura. La nostra attività normale è quella classica di un ufficio stampa e consiste nel promuovere film in uscita in sala ma anche eventi in luoghi d’arte come il Centre Pompidou, ed in questi mesi è completamente ferma. Oggi il nostro lavoro consiste nel disfare quello che avevamo fatto nei mesi scorsi, nell’annullare eventi. O a cercare di salvarli, spostando le date sempre più in là. Ma non si può spostare tutto all’infinito. Nel tempo che resta e per non demoralizzarsi, con altre due colleghe, Chloé Lorenzi e Laurance Granec, abbiamo creato un’associazione: il CLAP (Cercle libre des attachées de presse de Cinéma). Il nostro è un mestiere particolare. Mettiamo in evidenza il lavoro degli altri, mentre il nostro è poco visibile, poco riconosciuto e per nulla sostenuto dagli aiuti al cinema. L’associazione cerca di tessere dei legami con le altre associazioni di categoria, come la Sfr (Société des réalisateurs de films), per cercare di coordinarci per aiutare i più fragili tra di noi».

LUCIE BORLETEAU è sceneggiatrice, attrice, regista. Dal 2019 codirige la Srf [. E in questi giorni…
«Sto cercando di finanziare il film che ho appena finito di scrivere. È dura. I produttori e i distributori hanno sugli scaffali una pila di film già prodotti che aspettano di uscire in sala. Non possiamo far altro che insistere. Passo il mio tempo a inviare dossier. Cerco di impegnarmi con la Srf che, vista la situazione, è diventata un centro di discussione molto attivo… Non mi arrendo all’idea che la sala sparisca come modo essenziale di mostrare i film. Anche quando ho lavorato per la televisione (la mini-serie Cannabis, nel 2016) ho fatto in modo di organizzare delle proiezioni in sala. Il fatto di mostrare un film ad un pubblico fisicamente presente per me è irrinunciabile».