In una intervista pubblicata sul quotidiano «Le Monde» ieri, giorno di presentazione del suo film che ha aperto il concorso insieme a Monster di Kore-Eda, Catherine Corsini affronta per la prima volta le accuse che le sono state mosse tramite una serie di mail anonime di «violenza verbale e fisica, molestie, umiliazioni e altri comportamenti scorretti» che si sarebbero verificati sul set del suo nuovo film, Le retour. Il quale è stato reintrodotto nella competizione all’ultimo momento – decisione criticata da più parti – mentre il finanziamento del Cnc è sempre sospeso. Dice la regista che nel frattempo si è anche dimessa dal gruppo della Quinzaine des Cineastes: «Ho sempre militato per i diritti delle donne, abbiamo creato il collettivo 50/50 per l’eguaglianza delle donne nel cinema e che tutto questo adesso ci vada contro è assurdo. Quando leggo cosa dicono di me ho l’impressione che si tratta di un’altra».

PER CORSINI gli attacchi manifestano una nuova forma di patriarcato, una «misoginia» contro le donne. Ma perché? Niente a che vedere col sesso, di «scandali» in Le retour non ve ne sono, non più (e speriamo davvero che non sia questo se no siamo messi malissimo) di una scena d’amore tra due ragazze – assai pudica peraltro, si vede appena il seno – che sono comunque piuttosto grandi visto che si parla di università – e un po’ di stravolgimento in una festa estiva con alcol, tentativi maldestri di sesso al bagno, qualche pasticchetta calata di troppo. Le «accuse» sembrano però legate a altro, atteggiamenti tenuti dalla regista nella lavorazione, le esplosioni colleriche di un carattere difficile che lei stessa ammette. Troppo, troppo poco? Chissà. Rimane il film, ma che film è Le retour? Un nostos – come suggerisce il titolo, Il ritorno – che riporta da Marsiglia in Corsica una madre e le sue due figlie, dopo quindici anni, preceduto da un prologo nel quale la donna fugge a tutta velocità su un taxi con le due bimbe verso il porto, quasi fosse inseguita dai demoni, riceve una telefonata e si accascia in singhiozzi. Le ragazze che si chiamano Jessica (Suzy Bemba) la maggiore e Farah (Esther Gohourou) la piccola, non ricordano nulla di quel tempo sull’isola, «ho un vuoto» ripete spesso Jessica. Del padre sanno che è morto, era corso, lui e la madre che è di origine africana si erano messi insieme e sposati giovanissimi.

La donna però ha cancellato i legami del passato. Perché tornare allora? Per lavoro. Khedidja (Aissatou Diallo Sagna) è la tata di tre bambini in una famiglia di quelle «progressiste-classiste» da manuale, incapaci persino di pronunciare correttamente il suo nome – chissà se allude alle ragioni di una sinistra che arranca sempre più. Lui (Denis Podalydés, la moglie è Virginie Ledoyen) ha un’altra figlia della stessa età di Jessica, tra le due è quasi subito colpo di fulmine. Jessica studia scienze politiche, cerca il riscatto sociale dal suo proletariato nel benessere della classe borghese, è infastidita (eufemismo) da madre e sorella, quest’ultima prototipo della ragazza della banlieue, rap, furtarelli, spaccio, risse, niente scuola, solo tik tok. Che le cose precipiteranno è abbastanza chiaro dall’inizio come vuole un melò di segreti famigliari, confronto col passato troppo a lungo rimandato, risentimenti fra madre e figlie, l’appartenenza sociale e l’origine – le ragazze si chiedono spesso perché sono così scure visto che hanno un padre bianco – nel quale Corsini cerca il confronto col presente.
Nel suo microcosmo della Francia (del mondo) di oggi, ognuno dei personaggi incarna uno stereotipo sociale, compresi i corsi con la loro «corsitudine» ostinata, a esprimere conflitti, tensioni, malintesi, paradossi.

LO HA FATTO con diversi esiti Alain Guraudie nel suo ultimo L’innamorato, l’arabo e la passeggiatrice solo che Corsini manca di quella libertà inventiva con cui mischiare generi e «tipi», e nella sua scrittura non sa trovare un equilibrio con la narrazione contemporanea. Tutto appare messo in fila meccanicamente, persino il paesaggio non traspira né bellezza né rabbia – e l’emozione degli affetti rimane raggelata, e non per un effetto anti-retorico. Questi «stereotipi» non ci dicono null’altro oltre a ciò che sono: luoghi comuni banali, con gli stessi pregiudizi che vorrebbero criticare o smascherare.