Chi è Pierre Goldman? La sua vita, e le sue ossessioni le racconta al mondo lui stesso nell’autobiografia, Souvenirs obscure d’un juif polonais né en France, scritta in carcere nel 1975 dopo il primo processo che lo aveva condannato all’ergastolo per rapine a mano armata, una delle quali, nel dicembre del 1969 a Parigi, sul boulevard Richard Lenoir finita con l’omicidio di due farmaciste, accusa quest’ultima da Goldman sempre respinta.

Pierre Goldman

QUEL LIBRO racconta un figlio della Shoah, nato durante la guerra da genitori ebrei polacchi che erano fuggiti dai pogrom riparando in Francia, militanti comunisti, il padre combattente nella Resistenza, la madre dopo la guerra accusata di essere una spia russa, e per questo tornata in Polonia senza portarlo con sé. E dice del suo profondo desiderio di combattere, di essere come i genitori, di servire un causa importare che lo porta nell’America latina fra i guerriglieri venezuelani ai tempi del Che, accanto a Osvaldo Barreto, poi di nuovo in Europa, dove affronta depressioni e fantasmi senza però lasciare la lotta politica, militante nell’Unione comunista… E poi? Poi ancora i movimenti della vita, la passione per la musica caraibica, l’amore con una giovane donna antillana, le rapine, l’arresto. Lui ammette tutto ma non di avere ammazzato due farmaciste, quello è contro la sua morale. L’intera narrazione è concentrata nel corso del secondo processo, nel 1976, rimanendo nello spazio chiuso del tribunale tra false prove e perfetti colpevoliFigura ambigua e affascinante, rivoluzionario e rapinatore, scrittore di grande talento, ebreo che rivendica la propria appartenenza, rilasciato nel 1976, ucciso davanti casa, a Parigi nel 1979 a trentacinque anni, da un misterioso gruppo armato fascista «Honneur de la police» mai identificato. All’epoca il quotidiano «Libération», col quale Goldman collaborava titolò: Assassinato!. «Goldman rappresentava tutto ciò che odiano gli imbecilli, aveva le caratteristiche dell’uomo da uccidere: ebreo, vicino ai neri, rivoluzionari, ladro, scrittore» scrisse nell’editoriale Serge July.

Non è però un biopic il bel film di Cedric Kahn a lui dedicato che ha aperto la Quinzaine des Cinéastes – come da quest’anno si chiama la storica sezione indipendente del festival di Cannes – con la nuova direzione artistica di Julien Rejl. La scelta che il regista francese (Bar De Rail; Roberto Succo) fa è concentrare l’intera narrazione nel corso del secondo processo, nel 1976, rimanendo – a parte una breve sequenza iniziale – nello spazio chiuso del tribunale che diviene lo specchio di ciò che attraversa la società francese in quel momento. Film processuale dunque Le procès Goldman – «genere» che sembra attrarre in questo momento il cinema d’oltralpe, pensiamo a Saint Omer di Alice Diop – quasi che i casi «esemplari» possano far risuonare, appunto, la portata degli eventi di un’epoca, i suoi conflitti, la sua violenza, la politica, le lotte. Nell’aula di quel processo in cui Goldman prende la parola per difendersi e per accusare – sostenuto da molti intellettuali come Simone Signoret, Sartre – e simbolo per la sinistra antagonista del dopo Sessantotto, i ragazzi e le ragazze che riempiono l’aula – si delinea una sorta di mappa politica passata e insieme sempre attuale che interroga l’antisemitismo, il razzismo, la brutalità poliziesca, le false prove costruite ad hoc, i colpevoli perfetti. Cosa porta gli investigatori a accusare Pierre Goldman di un crimine che lui nega – mentre ha riconosciuto gli altri – con tanta ostentata sicurezza? I testimoni esibiti in aula contro di lui sono deboli, persino i poliziotti si contraddicono. Lui – a cui dà vita con grande intensità Arieh Worthalter – dichiara che si tratta di un complotto. Perché è ebreo, come lo era Dreyfus, perché è comunista, perché ha troppi amici africani, testimoni le cui parole vengono invece sempre contraddette, che sono spaventati perché minacciati, picchiati, trattati senza rispetto dei diritti. È una società razzista che porta alla luce Goldman nelle sue provocazioni secche, costanti, implacabili, di uno che rifiuta gli psicologismi e persino i testimoni a suo favore perché sono i fatti a parlare e la sua innocenza, che è tale e va creduta.

La redazione consiglia:
Domicilio coniugale e lotta di classeANCHE KAHN che ha scritto la sceneggiatura insieme a Nathalie Hertzberg mette al centro i fatti, lasciando affiorare attraverso le parole il profilo di una società reazionaria e poliziesca, fascista e piena di pregiudizi, con arroganza e stupidità, contestata e irrisa dall’altra parte dell’aula che è anche un’altro pezzo di Paese.
Il clima nell’aula – il processo si apre il 20 novembre del 1975 nel tribunale di Amiens – è elettrico, a difendere Goldman è Georges Kiejman (Arthur Harari), altra figura di spicco in Francia, scomparso da qualche giorno, e ha collaborato alla scrittura, che deve anche contenere le sfuriate del suo difeso di fronte ai tranelli dell’accusa. Goldman è carismatico e polemico, non cerca di piacere perché appunto la sua è un’innocenza «ontologica»: «Sono innocente perché sono innocente» ripete. In quel teatro, nel flusso delle sue parole, spesso gridate ma sempre secche e senza retorica – come la scrittura e la regia di Kahn – va in scena il Novecento con le sue contraddizioni, con quelle eredità di un passato mai sopito, e la sua sopravvivenza nelle fratture del presente. Kahn non cerca certezze, nella sua ricostruzione precisa l’obiettivo non è tirare una linea tra innocenza o colpevolezza. Piuttosto lascia che la vicenda interroghi chi guarda sollevando intorno a questo che è il nocciolo processuale altre questioni, che riguardano l’intera società. Nel processo Goldman si gioca un’idea di stato del diritto che vacilla a fronte di ciò che Goldman dice, pronto a proteggersi e a coalizzarsi – i poliziotti fascistissimi mentono anche in modo stupido – contro ciò che destabilizza, anche contro il principio della legge stessa. Forse è anche lui colpevole, nella sua ricerca di riscatto, e anche se il regista dice di non avere certezze ce lo mostra comunque innocente, nel sistema che lo circonda, costruito per condannarlo, di cui Goldman sa denudare la menzogna.