I sindacati da mesi chiedevano inutilmente di «prepararsi per tempo ad affrontare l’emergenza caldo sui luoghi di lavoro». Il governo non ha fatto niente e ieri, nel corso di un incontro la ministero del Lavoro, ha dimostrato la sua ignavia mentre le imprese sostengono che «l’emergenza» non ci sia proprio.

«L’arrivo dell’estate si annuncia con le prime città da bollino rosso e un caldo che può uccidere. Per proteggere i lavoratori dalle temperature estreme diverse Regioni, dalla Calabria alla Puglia, dal Lazio alla Basilicata, hanno vietato di lavorare nelle ore più calde dei giorni critici nei campi o nei cantieri. Nelle intenzioni del governo c’è anche promuovere un protocollo tra i ministeri del Lavoro e della Salute e le parti sociali che fissi linee guida per la riduzione del rischio dei lavoratori esposti alle alte temperature. Ma la ripresa del confronto, interrotto lo scorso autunno, è partita in salita.

«L’anno scorso non ci siamo riusciti, oggi dobbiamo farlo», aveva esortato la ministra Marina Calderone annunciando l’incontro di ieri mattina, a cui ha partecipato il sottosegretario Claudio Durigon. L’appello di Calderone si è scontrato con le posizione delle parti, rimaste immutate. Da un lato, Cgil, Cisl e Uil chiedono un protocollo che fissi «punti cardine irrinunciabili e vincolanti» e rimandi a regolazioni di settore e comparto con un modello analogo al protocollo per il Covid. Oltre a un decreto sugli ammortizzatori sociali per il caldo, in linea con quello dello scorso anno, ma esteso ai lavoratori stagionali. Dall’altro lato, per le parti datoriali «non esiste un’emergenza caldo», dice la segretaria confederale della Cgil Francesca Re David spiegando che secondo le imprese basterebbe la normativa esistente. Le associazioni delle imprese non commentano. «Un anno fa le parti datoriali hanno fatto naufragare la proposta di protocollo, oggi siamo ritornati alla casella del via. La nostra posizione non si è mossa di un millimetro», sottolinea la segretaria confederale della Uil, Ivana Veronese definendo l’incontro «tardivo», in «piena emergenza caldo».

«Le ordinanze regionali non coprono tutti i settori, certo sono importanti, ma noi chiedevamo un protocollo nazionale e degli automatismi», spiega, con il ricorso alla cassa integrazione obbligatorio in certe circostanze.
«Se oltre i 35 gradi fa male lavorare, non si deve lavorare», sintetizza Re David.

I rischi di lavorare a temperature estreme sono illustrati dal progetto di ricerca europeo per l’adattamento al cambiamento climatico Adaptheat a cui ha partecipato la Fondazione Di Vittorio. In particolare il rischio di infortuni sul lavoro durante le ondate di calore aumenta del 17,4% con l’esposizione a ustioni, ferite, lacerazioni, amputazioni e malattie connesse alle temperature severe.

«Da almeno 3 mesi, in tutti i tavoli con il ministero del Lavoro, anche in quelli tecnici la Uil ha chiesto di convocare il tavolo “emergenza caldo”. Siamo al 20 giugno e le alte temperature sono già esplose in gran parte d’Italia. Il ministero ha riproposto il protocollo dell’anno scorso, che le parti datoriali non volevano e non vogliono sottoscrivere neppure oggi. Nulla di nuovo quindi, purtroppo. E invece noi, come un anno fa, ribadiamo che l’unica efficace è proprio una risposta sistemica – attacca la segretaria confederale della Uil, Ivana Veronese – . Dobbiamo andare oltre la logica dei settori, – continua – . Serve una base comune che deve essere chiara e cogente; poi, le categorie possono sottoscrivere protocolli specifici di settore, per realizzare ulteriori passi avanti. La Uil ha chiesto di rendere strutturale la possibilità di accesso agli ammortizzatori sociali per i settori interessati, anche per le lavoratrici e i lavoratori stagionali, in particolare per l’agricoltura», conclude Veronese.