Mille al giorno, diecimila, centomila, un milione di messaggi. Tutti uguali: “Ciao, sono diventata tua amica su questo social”. Firmato: Azara, Nahid, Soraya. E’ proprio così che il paese degli ayatollah scopre una nuova – e per tanti versi inedita – forma di censura digitale.

Censura on line che certo in Iran va avanti da anni. Da decenni. Censura digitale di qualsiasi dissenso, a cominciare da quello delle donne. Come sempre.

Vecchia storia, si dirà allora, magari arricchita recentemente dalle denunce sull’indifferenza, sul silenzio delle Big Tech che è diventato complicità col governo di Tehran. Ma non sarebbe tutto. Perché mancherebbero da raccontare le strane, nuove tecniche adottate per silenziare qualsiasi voce non consona. Tecniche sofisticate e rozze, nello stesso tempo: i troll.

Per raccontare cosa sia – cosa sia sempre stata – la repressione digitale in quel paese bastano poche righe. Ci sono centinaia di report, di studi, di analisi di tutte le associazioni – da AccessNow ad Eff – che svelano quanto controllata e censurata sia la rete in Iran.

L’ultimo rapporto, drammatico, è quello del MIT Technology Review. Uscito poco tempo fa ma che sarebbe già da aggiornare. Perché i solerti burocrati governativi affinano continuamente le loro pratiche. Non si è più insomma a pochi anni fa, quando davanti alle proteste di piazza, l’ente preposto alla sorveglianza delle comunicazioni ordinava il blocco totale della rete. Quello che chiamano shut down, in tutto il paese.

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Da allora, il governo si è specializzato, lavora a macchia di leopardo: si bloccano le connessioni nelle città e nelle zone dove esplodono le proteste. Che possono restare bloccate per quattro, cinque, dieci giorni, fin quando cioè “i guardiani della rivoluzione” non ristabiliscono il loro ordine.

Con eccezioni: nella regione del Khuzestan, a maggio di quest’anno, le proteste contro l’aumento delle tariffe dell’acqua, hanno comportato il blocco “locale” delle reti per quattro settimane esatte.

Un blocco che non riguarda – sia chiaro – solo il diritto, la libertà d’espressione. C’è molto di più. Come ha testimoniato uno splendido studio di AccessNow, in questi anni di drammatica crisi economica, le donne sono state le prime a pagare. Anche dal punto di vista occupazionale. E per molte di loro la rete era diventata un piccolissimo strumento per portare a casa due soldi, per la sopravvivenza, vendendo on line ciò che coltivavano e ciò che facevano con le loro mani. Ma con i shut down continui, Samane, Susan, Mehrnoush e tutte le altre hanno dovuto rinunciarvi.

Blocco, ancora, per il quale comunque non bisogna solo ringraziare il regime.

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Certo Ebrahim Raisi ha fatto quel che voleva, bloccando ogni social che non fosse controllato da Teheran e filtrando l’accesso a qualsiasi sito estero. Unica chance rimasta per gli utenti iraniani, Instagram, restato aperto. Aperto per modo di dire, però. Perché sempre nella primavera di quest’anno, il social (del gruppo Meta, cioè di Zuckerberg) ha improvvisamente oscurato tutti i messaggi, tutti i filmati, tutte le immagini postate dal gruppo “1500Tasvir”. Gruppo di attivisti che ovviamente non ha mai avuto vita facile.

A marzo, però, con l’invasione russa dell’Ucraina, sembrava che qualcosa potesse cambiare anche per loro. Perché si è saputo – e l’hanno saputo anche in Iran – che Instagram aveva in qualche modo attenuato la sua policy, per consentire la pubblicazione di foto e didascalie che permettessero di conoscere le violenze dell’esercito di Putin. Sbloccati anche gli account legati al gruppo Azov, fino ad allora nella lista nera.

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Ma quel che era permesso agli ucraini, non era permesso agli iraniani. Così sono state subito bloccate tutte le foto dell’aggressione delle “guardie della rivoluzione” ad un gruppo donne per le strade di Tehran. Ad un giornalista di Slate – un sito di informazione con notizie da tutto il mondo che copre bene Asia e Medio Oriente -, il gruppo di Zuckerberg ha risposto che loro “consentono la più totale libertà d’espressione ma non l’incitamento alla violenza” che traspariva dalle immagine postate dagli attivisti iraniani.

Senza contare – ed è forse il dato ancora più allarmante – che tutte le Big Tech hanno pochissimi moderatori di contenuti per le lingue che non siano le più diffuse nel mondo. Ci si affida per comodità ai filtri automatici che ovviamente appena leggono il nome di un ayatollah bloccano il messaggio. P

oche le persone, pochi gli umani impegnati nella moderazione dei messaggi in farsi. E misteriosamente – visto che il gruppo impedisce solitamente di conoscere i nomi dei suoi impiegati nel settore – uno di loro, un esule che vive a Londra, è stato “rintracciato” da qualcuno. Da un anonimo. Che – come ha raccontato alla BBC – gli ha offerto molti soldi perché censurasse le voci dei dissidenti che vivono in Inghilterra.

Questo il quadro. Poi l’ultima novità. Ad accorgersene per prima – come riportato da due testate, CodaStory e RestOfWorld, da sempre in prima fila nelle battaglie digitali – è stata Samaneh Savadi, un’avvocata, costretta a vivere a Londra da tanti anni ma che da lì continua ad organizzare la battaglia di emancipazione delle iraniane.

La scalatrice iraniana Farnaz Esmaeilzadeh nel 2016, foto Ap

Se n’è accorta quando dopo aver pubblicato su Instagram un messaggio che rifletteva sulle difficoltà delle donne dopo il parto, ha contato cinquemila nuovi follower. Incuriosita è andata a chiedere alle sue amiche, alle sue compagne. Avevano avuto le stesse richieste. Che crescevano di giorno in giorno. E Instagram ha un regolamento piuttosto rigoroso: quando i follower diventano troppi e troppo all’improvviso, quando c’è il sospetto che siano troll, identificativi falsi, si chiude l’account.

In poco tempo s’è così saputo che tutte le femministe iraniane erano state prese di mira. La prima risposta? Cancellare le “amicizie strane”. Samaneh Savadi ci ha provato: arrivata a 400 ha dovuto sospendere il lavoro, Instagram – così le ha fatto sapere con un messaggio – non consente di andare oltre con quest’operazione.

L’altra contromisura è stata – ed è – la più dolorosa: lei, come Shaghayegh Norouzi, un’attrice famosa, anche lei esule e centinaia di altre, sono state costrette a rendere privati i loro account. A “lucchettarli”, come si dice. Nessun’altra può più seguire le loro discussioni, le loro denunce. “Hanno distrutto le potenzialità della nostra rete”, dicono. Le hanno isolate.

Inutile aggiungere che una lettera aperta a Meta perché facesse di più per proteggere le attiviste è rimasta senza risposta.

Ma la lettera aperta è stata notata e letta da Qurium, un’organizzazione no-profit di digital forensics. Fa indagini, battaglie legali per chi non può permetterselo. Così, lo staff di Qurium ha “spulciato” fra quel milione di troll (cento al minuto) che voleva diventare “amico” delle femministe iraniane.

Con scoperte straordinarie che hanno raccontato in un report.

Gli account falsi (quasi tutti intestati a donne inesistenti, che nelle loro biografie citano due righe di Shakespeare o molto più semplicemente mettono “xxxyyyzzzzz”) sono tutti collegati a due siti pakistani. Due seminascoste società di social media marketing – così si definiscono -, “Promoting Guru” e “Dua Communication”, tutte e due con sede nella provincia del Punjab.

Cosa fanno? Vendono milioni di account falsi a chi, sui social – per tanti motivi – vuole far crescere a dismisura i propri follower. Vendono “like”, mi piace, ad utenti “speciali” di FaceBook.

E vendono troll a chi vuole paralizzare le attività su Instagram. A prezzi che possono variare ma che solo pochi possono permettersi. Che solo qualche gruppo privato, o meglio: qualche governo, può permettersi. Vendono ma rendono impossibile di risalire agli acquirenti. Attraverso un inestricabile, anche al super esperto staff di Qurium, meccanismo di rimandi da un sito all’altro, che utilizza sofisticate tecniche di anonimato.

Ma anche solo conoscere gli indirizzi e sapere cosa fanno quelle due società, fa capire comunque che i censori di Tehran non si limitano più ad usare l’accetta. Si adeguano.