Cibo, acqua potabile, medicine, ricariche telefoniche. Sono queste le richieste più frequenti dei migranti che lavorano come colf e badanti nelle case dei libanesi, o come inservienti in ristoranti, alberghi, negozi. Un esercito di lavoratrici e lavoratori, in maggioranza donne provenienti da Africa e Asia: oltre 250mila persone, cui si aggiungono circa 75mila irregolari.

Per loro la quarantena per contenere la diffusione del Covid-19, iniziata un mese fa, sta significando un ulteriore peggioramento delle proprie condizioni di vita, già deteriorate dalla crisi economica-finanziaria che a marzo ha portato il Libano alla bancarotta.

La lira libanese al cambio con il dollaro (valuta ormai introvabile) sul mercato parallelo è schizzata a 2.600, con un picco a 3.000 pochi giorni fa, poi rientrato. Lo stipendio di una lavoratrice domestica varia in media dai 150 ai 400 dollari, corrisposto in lire libanesi con il cambio ufficiale a 1.500.

«NON LAVORO DA DUE MESI», ci racconta Mariam, colf filippina in Libano da 26 anni e attivista per i diritti delle lavoratrici domestiche. «La famiglia per cui lavoro è in Europa e non so quando rientrerà. Adesso distribuiamo beni di prima necessità a chi ne ha bisogno. Molti, soprattutto chi lavorava in ristoranti e alberghi, avevano già perso il lavoro a causa della crisi e adesso sono bloccati in case spesso sovraffollate e se non riescono a pagare l’affitto rischiano di essere sfrattati. Raccogliamo fondi online e distribuiamo in circa cento case». Le comunità di migranti si sono organizzate per sostenere chi tra loro è più vulnerabile, anche con il sostegno delle ambasciate.

Il gruppo Engna Legna Besides, fondato da donne etiopi, distribuisce beni di prima necessità, mentre le organizzazioni e le associazioni, libanesi e internazionali, cercano di garantire l’accesso alle cure mediche e di verificare il rispetto delle condizioni di lavoro nelle case libanesi, oltre a premere sul governo affinché ponga maggiore attenzione a questa numerosa comunità in cui il rischio di un’esplosione di contagi, come ogni focolaio incontrollato, rappresenta una minaccia per la salute pubblica.

È LO STESSO MECCANISMO di reclutamento, il sistema di sponsorship chiamato kafala, a rendere invisibili questi lavoratori. Il migrante può lavorare soltanto per il suo sponsor, non può rescindere il contratto e in caso di abusi l’unica via d’uscita è la fuga che però significa restare nel paese illegalmente, rischiando l’arresto. Inoltre, con l’emergenza Codiv-19 le strutture che accolgono chi fugge sono chiuse. La condizione peggiore è quella degli illegali, ci spiega Zeina Mohanna, a capo del progetto Protection of Migrants and Counter Trafficking della ong libanese Amel: «Lavoravano come freelance nelle case e con il lockdown molte hanno perso il lavoro perché temono controlli per strada».

«Per la stessa ragione – prosegue Mohanna – sono restie a comunicare alle autorità se hanno sintomi riconducibili al Covid-19. Anche se volessero richiedere un tampone, senza documenti non possono e i rimpatri, per tante di loro che vogliono lasciare il Libano, sono fermi a causa della quarantena. Inoltre quando riaprirà l’aeroporto si porrà il problema della disponibilità e della capacità dei paesi di origine di garantire quarantene e ritorni in sicurezza. Per questo abbiamo chiesto alle forze di sicurezza di non essere rigidi in questo momento di emergenza sanitaria e pare che chiudano un occhio, anche per evitare sovraffollamenti nelle carceri, ma non possiamo essere sicuri di quanto questa linea sia applicata».

MA ANCHE CHI VIVE con i datori di lavoro non se la passa bene. La quarantena significa lavorare di più, perché tutta la famiglia è in casa, i bambini non vanno a scuola e le richieste aumentano, non avere un giorno di riposo, a volte non essere pagate e chi già viveva una situazione di maltrattamenti, adesso è bloccata in casa con i propri aguzzini.

«Sappiamo di datori di lavori che non forniscono mascherine e guanti alle lavoratrici, sottovalutano la loro esposizione al rischio del contagio mandandole a fare la spesa senza protezioni – ci racconta Rana el Serbaji – e ci sono casi in cui è stato proibito loro di riferire la comparsa di sintomi da coronavirus. Al momento non siamo a conoscenza di casi di contagio tra le lavoratrici domestiche, ma i dati in generale non sono accurati e non possiamo assolutamente escludere che ci siano persone affette dal virus nella comunità di migranti. Non tutti, inoltre, potrebbero permettersi di fare un test che costa 250mila lire libanesi (circa 150 dollari)».

In Libano negli anni le lavoratrici domestiche si sono organizzate e hanno alzato la voce per chiedere l’abolizione della kafala. «Adesso affrontiamo questa emergenza, ma torneremo a lottare per i nostri diritti», dice Mariam ricordando Faustina Tay, forse l’ultima vittima delle violenze che in alcune case libanesi sono riservate alle lavoratrici domestiche.

La 23enne ghanese è stata trovata morta nel parcheggio sottostante l’abitazione in cui lavorava, a Beirut, il 14 marzo. Per giorni aveva inviato richieste di aiuto: temeva per la propria vita. Sulla sua morte, inizialmente dichiarata suicidio, è stata aperta un’indagine.