Una coppia che si è trasferita da poco dalla California ai sobborghi di Boston. Un lavoro apparentemente sicuro in una prestigiosa università che si è rivelato a rischio. Silenzi e stanchezza reciproca che hanno preso il posto dell’amore. Quello raccontato da Steve Yarbrough ne Il regno delle ultime possibilità (Nutrimenti, pp. 288, euro 18) potrebbe apparire come il semplice preludio ad una crisi sentimentale, che finirà per mettere i protagonisti, Cal, Kristin e Matt, a confronto con le proprie fragilità e incertezze, aprendo la strada alla violenza e al tradimento. Ma nella prima opera tradotta nel nostro Paese del 63enne scrittore del Mississippi, in realtà autore di una decina tra romanzi e raccolte di racconti, emerge ben altro. Un intreccio di bugie, memorie occultate, identità a rischio sullo sfondo di una società travolta dalla crisi economica e dalla paura, che non esclude la possibilità per alcuni della ricerca della redenzione, pur fissandone un prezzo molto alto da pagare. Spesso presentato dalla critica statunitense come erede della tradizione letteraria del Sud del Paese, incarnata da nomi quali Faulkner e O’Connor, Yarbrough costruisce così uno straordinario spaccato di questi anni dominati dall’incertezza, indagando, senza rinunciare a una buona dose di suspense, sulle tante ombre che ciascuno custodisce celate nella propria vita. Lo scrittore interverrà domenica a Più libri più liberi (alle 16.30 presso la Sala Antares, con Francesco Pacifico).

Il suo romanzo ruota attorno a un tradimento. Ma se si guarda attentamente ci si accorge che tutti, ma proprio tutti i personaggi celano in sé qualche segreto o hanno mentito almeno una volta a se stessi o agli altri. Perché questo interesse?
Penso che quasi tutti abbiano dei segreti. Ed è talmente vero che ne troviamo così tanti nelle pagine dei romanzi. Uno dei passaggi più memorabili che abbia mai letto al riguardo si trova ne La signora con il cagnolino di Cechov, dove il banchiere donnaiolo Gurov spiega come ognuno abbia due vite: una aperta e visibile a tutti, un’altra nascosta e conosciuta solo da se stessi – e che per alcune persone, questa seconda conto molto più dell’altra. Questa consapevolezza informa in un modo o nell’altro la maggior parte delle cose che ho scritto fino ad oggi. Allo stesso tempo sono affascinato dal tema del tradimento. Sono cresciuto con la suspense di Graham Greene, John LeCarre e Alan Furst che mi hanno convinto che nessuno può affermare di non aver mai tradito la fiducia di un altro essere umano. O, almeno, è successo a me e succede inesorabilmente a tutti i miei personaggi.

Lo scrittore Steve Yarbrough

Nel libro, ambientato una decina di anni fa, si respira un senso di incertezza e fragilità, frutto della crisi economica che miete posti di lavoro e costringe i protagonisti a spostarsi da una parte all’altra dell’America. Anche in questo caso si tratta di un tradimento? È forse l’idea del «sogno americano» che è stata in qualche modo tradita dal collasso economico del 2008?
Il mio Paese è stato tradito più volte dai suoi leader. E, negli ultimi anni, «il sogno americano» si è semplicemente trasformato in una finzione, una bugia utile per essere smerciata al dettaglio, come altre trappole inventate dal «patriottismo», e venduta a coloro che passano due o tre ore a notte guardando Fox News, il canale di propaganda della destra. Non solo. Se vogliamo essere sinceri fino in fondo, per molte persone il sogno americano non è mai stato davvero a portata di mano, è rimasto irraggiungibile per tutta la vita. La crisi finanziaria del 2008 è stata solo l’inizio di un decennio della vita americana nella quale tanta gente si è interrogata sempre più sbigottita. «Qui non può succedere», si dicevano in molti. E invece sì, è successo. E ancora non se ne vede del tutto la fine. Basta guardare alla zona industriale del Midwest, dove le fabbriche hanno chiuso per trasferirsi in altri Paesi o in altri Stati che offrono maggiori agevolazioni fiscali. Molti di quelli che si sono trovati per strada in posti come il Michigan e il Wisconsin hanno finito per votare, e eleggere Donald Trump. E, mi dispiace dirlo, temo che lo faranno di nuovo l’anno prossimo.

Le «ultime possibilità» del titolo segnalano in questo senso sia la capacità di rimettersi in gioco emotivamente che di trovare nuovo motivazioni per rialzarsi dopo una caduta come quella rappresentata dalla crisi?
Credo proprio di sì. Cal, Kristin e Matt stanno cercando disperatamente di rialzarsi e innamorarsi di nuovo. Sono alla ricerca di ragioni sufficienti per alzarsi dal letto la mattina e sentire che c’è qualcosa per la quale vale la pena di guardare al futuro. Ho visto persone per le quali tali ragioni non c’erano più. Mio padre, per esempio, negli ultimi trenta o quarant’anni della sua vita. Di solito non era una persona facile con cui stare, perché era quasi sempre arrabbiato proprio a causa di questa sua mancanza di prospettive. Anche se a volte il suo umore si alleggeriva e poteva essere divertente e caloroso.

Accanto alle vicende personali, nel libro è presente, come in altri suoi lavori, una sorta di «memoria dei luoghi» che racconta la storia del Paese e i cambiamenti che ha conosciuto nel corso del tempo. I luoghi dove ha vissuto sono tra i protagonisti delle sue storie?
Senza dubbio. Anche se non scrivo più del Mississippi o del Sud in generale – i posti dai quali vengo -, come per la maggior parte degli scrittori «sudisti» anche per me i luoghi rappresentano un elemento particolarmente importante. Allo stesso modo, se non sono affascinato da un luogo, difficilmente ne scriverò. Ho vissuto in California per ventun’anni, ma non ne ho mai scritto finché non mi sono spostato altrove, quando mi è sembrato di poterla vedere con occhi diversi. Mi succede anche di visitare un posto per la prima volta e sviluppare all’istante il tipo di affetto che mi convince che ne posso scrivere immediatamente. Mi sono innamorato di un numero relativamente piccolo di luoghi: alcune parti della Pennsylvania rurale, una cittadina chiamata Harbour Springs sulle rive del lago Michigan, praticamente tutta l’Irlanda, tutte le parti d’Italia che ho visitato; Varsavia; il distretto dei laghi polacchi; Berlino; l’isola di Vieques, a Porto Rico, prima che fosse colpita da un uragano e l’amministrazione Trump la abbandonasse al suo destino.

Nel romanzo torna il suo amore per la musica tradizionale e il bluegrass in particolare e viene citato il testo di «Your cheatin’ heart» (Il tuo cuore traditore) di Hank Williams, uno dei brani più famosi della storia del country. Arrivato alla letteratura dalla musica, cosa rappresenta ai suoi occhi la «fabbrica di storie» del country che ha cantato l’amore come l’ingiustizia e la sofferenza?
Sono cresciuto nel Delta del Mississippi, nella stessa città del grande bluesman B.B. King. L’uomo che mi ha insegnato a suonare la chitarra quando avevo circa nove o dieci anni era bianco, ma aveva imparato a sua volta da un afroamericano, un altro personaggio leggendario, Mississippi Fred McDowell. Quindi, il blues è stato da sempre intorno a me, ed è questa musica che ha investito il country sia sul piano della struttura, costruita su scale pentatoniche, che con la sua preferenza per i testi che trattano di sofferenza e dolore, imbrogli e menzogne, lavori durissimi pagati due soldi e così via. Il bluegrass e il country non sono la stessa cosa, ma entrambi provengono dal blues: possono essere considerati, pur nelle loro differenze, come il blues dei bianchi. Con questo retroterra, quando ho capito di non essere abbastanza bravo per diventare un professionista, ho cominciato a scrivere. Ora ascolto principalmente jazz e musica classica, ma dedico sempre almeno una mezz’ora al giorno anche al country e al bluegrass.

Chi non legge le sue storie in lingua originale, e quindi fatica a cogliere la specifica costruzione linguistica che ne è alla base, a cosa deve guardare per cogliere l’eco della grande tradizione narrativa del Sud degli Stati Uniti, che la critica americana vi ha scorto?
In quasi tutti i miei romanzi, indipendentemente da dove sono ambientati, è presente un riferimento ai conflitti razziali. Fin dal primo, The Oxygen Man (1999) che raccontava una storia di violenza e razzismo ambientata nella cittadina di Indianola, nel Mississippi – dove sono nato -, per arrivare a Il regno delle ultime possibilità, dove emerge un passato di discriminazioni nei confronti degli ispanici in California. Credo sia soprattutto questo che condivido con gli scrittori del Sud del passato, che di questi temi hanno sempre parlato in qualche modo. Inoltre, è chiaro, tutto in me parla del Sud del Paese. La lingua con cui sono cresciuto, specifica della zona del Delta del Mississippi, informa ogni parola che scrivo, come i miei pensieri. Basti pensare che parlo ancora con un forte accento del Delta, anche se non ci vivo da oltre quarant’anni.

Lei ha iniziato a scrivere più di vent’anni fa raccontando il Mississippi e poi, via via, le sue storie l’hanno accompagnata nei trasferimenti in altre zone, fino all’attuale approdo a Boston. Quanto è cambiata l’America nel frattempo?
Il Paese è cambiato enormemente. Alcuni dei cambiamenti sono stati buoni. Altri sono stati terribili, specie negli ultimi anni. Il New England, almeno la parte in cui vivo, è politicamente liberal. E credo che oggi non sarei in grado di sopravvivere in molte altre parti d’America. Anzi, in alcune zone non ho nemmeno più voglia di andare. Così, non sono sicuro che vorrò più rimettere piede a Indianola. Mi sento sempre più lontano dalle persone con cui sono cresciuto: dalle loro pistole, dalla loro religiosità. Hanno opinioni che spesso mi spaventano e non credo che troverei più le parole giuste per parlare con loro.